Nel mondo globalizzato, multiculturale, post-industriale urbano che caratterizza il nostro contemporaneo tutto sembra a portata di mano e possibile. Sempre più legati a città dalle reti invisibili, il tocco rapido sulla tastiera del computer wireless, la penetrante presenza del telefonino che ha forgiato di fatto una nuova lingua-orale e scritta, la comunicazione sincopata del telefono invasivo danno la falsa percezione di un’onnipotenza temporale e di dominio sulla spazialità. La città contemporanea sembra proprio grazie a queste realtà ed allo stesso tempo a queste icone del progresso sfuggire all’eterno dilemma della città antica, della città medievale e di quella dell’antico regime di un confine da valicare, di un muro da superare, di un fiume da navigare per arrivare all’oltre , al vuoto, all’altro allo sconosciuto. L’altro è presente ed essenza della città contemporanea che parla molte lingue, che si veste di abiti diversi e sente nell’aria l’odore di cibi mescolati, in un meticciato pervasivo e diffuso. Cittadino solo apparentemente senza i limiti che lo definivano e lo opprimevano, l’uomo urbano anche privilegiato – dotato cioè di un reddito, di una casa, di una raggiunta posizione sociale – vive tuttavia una sofferenza continua che è strettamente correlata alla perdita della sua identità non solo culturale ma anche spaziale. Girovago della metropoli, eterno turista oppresso da monumentalità imponenti e da rotture degradanti del tessuto urbano, invaso da un turismo indisciplinato e da un consumismo che si libra fra ritualità imposta e percezione del disagio economico fra budgets sempre più ristretti e di una saturazione reale, il nostro uomo vive di una sofferenza particolare e tenta la fuga. Lo fa nella religione e nella ritualità del tempo libero e della ricerca di verde in campagna e nel weekend. Lo fa nell’estremizzazione del privato che lo porta a chiudersi e a fuggire il pubblico per consumare fra le mura domestiche il soliloquio di internet, la ritualità della chat, che hanno soppiantato – e molto anche per le giovani generazioni – la conversazione, la vita della piazza, il rito di un sociale esterno. Si tratta di pensare la città in questo senso problematico, come un connettore di attività e un insieme di luoghi contrastanti : centripeti (aggregazione, socialità, agorà etc.) e centrifughi (diffusione, estensione, allargamento) di risorse umane fra “centro” (città) e “periferia” (campagna). Una nuova nozione di cittadinanza potrebbe essere pensata e costruita a partire dalla realtà di una «città centrifuga» che fa problema.
Quintili, P. (2008). Uni(di)versità. Agire per le città e il territorio. Uno sguardo antropologico-filosofico sulle grandi linee del Manifesto italo-francese presentato alla casa dell'Architettura. AR, 79, 45-47.
Uni(di)versità. Agire per le città e il territorio. Uno sguardo antropologico-filosofico sulle grandi linee del Manifesto italo-francese presentato alla casa dell'Architettura
QUINTILI, PAOLO
2008-08-01
Abstract
Nel mondo globalizzato, multiculturale, post-industriale urbano che caratterizza il nostro contemporaneo tutto sembra a portata di mano e possibile. Sempre più legati a città dalle reti invisibili, il tocco rapido sulla tastiera del computer wireless, la penetrante presenza del telefonino che ha forgiato di fatto una nuova lingua-orale e scritta, la comunicazione sincopata del telefono invasivo danno la falsa percezione di un’onnipotenza temporale e di dominio sulla spazialità. La città contemporanea sembra proprio grazie a queste realtà ed allo stesso tempo a queste icone del progresso sfuggire all’eterno dilemma della città antica, della città medievale e di quella dell’antico regime di un confine da valicare, di un muro da superare, di un fiume da navigare per arrivare all’oltre , al vuoto, all’altro allo sconosciuto. L’altro è presente ed essenza della città contemporanea che parla molte lingue, che si veste di abiti diversi e sente nell’aria l’odore di cibi mescolati, in un meticciato pervasivo e diffuso. Cittadino solo apparentemente senza i limiti che lo definivano e lo opprimevano, l’uomo urbano anche privilegiato – dotato cioè di un reddito, di una casa, di una raggiunta posizione sociale – vive tuttavia una sofferenza continua che è strettamente correlata alla perdita della sua identità non solo culturale ma anche spaziale. Girovago della metropoli, eterno turista oppresso da monumentalità imponenti e da rotture degradanti del tessuto urbano, invaso da un turismo indisciplinato e da un consumismo che si libra fra ritualità imposta e percezione del disagio economico fra budgets sempre più ristretti e di una saturazione reale, il nostro uomo vive di una sofferenza particolare e tenta la fuga. Lo fa nella religione e nella ritualità del tempo libero e della ricerca di verde in campagna e nel weekend. Lo fa nell’estremizzazione del privato che lo porta a chiudersi e a fuggire il pubblico per consumare fra le mura domestiche il soliloquio di internet, la ritualità della chat, che hanno soppiantato – e molto anche per le giovani generazioni – la conversazione, la vita della piazza, il rito di un sociale esterno. Si tratta di pensare la città in questo senso problematico, come un connettore di attività e un insieme di luoghi contrastanti : centripeti (aggregazione, socialità, agorà etc.) e centrifughi (diffusione, estensione, allargamento) di risorse umane fra “centro” (città) e “periferia” (campagna). Una nuova nozione di cittadinanza potrebbe essere pensata e costruita a partire dalla realtà di una «città centrifuga» che fa problema.I documenti in IRIS sono protetti da copyright e tutti i diritti sono riservati, salvo diversa indicazione.


