Oggetto d’indagine del presente lavoro è l’attuale incidenza della Convenzione dei Diritti dell’Uomo, nella lettura offerta dalla Corte di Strasburgo, sull’ordinamento interno sotto un particolare profilo: quello della sanzione amministrativa. Partendo dall’analisi della sanzione amministrativa nell’ordinamento interno e dei principi che la regolano si dimostrerà come tale categoria risulta indissolubilmente collegata a quella della sanzione penale, di cui assume per certi versi i connotati. Nonostante gli sforzi della dottrina di individuare criteri discretivi e definirne la fisionomia, la sanzione amministrativa mostra un carattere duttile che si presta a svolgere, oltre a una funzione riparatoria/ripristinatoria dell’interesse leso dall’infrazione del trasgressore, anche finalità preventive e repressive alla stregua della pena. A conferma di tale assunto, vi sono alcuni fattori come la depenalizzazione che evidenzia l’intercambiabilità della sanzione penale con quella amministrativa e la matrice penalistica dei principi introdotti dalla L. 24 novembre 1981 n. 6891 . Tuttavia, l’applicazione dei principi e le garanzie introdotte dalla Legge del 1981 alle sanzioni amministrative è risultata poco efficace, essendo suscettibili di deroghe in assenza di una piena copertura costituzionale. In particolare, il problema si è posto con riferimento a quelle sanzioni che pur qualificate come amministrative dalla legge, in realtà rivelino un carattere talmente afflittivo da essere assimilabili a quelle penali. A tale peculiare categoria di sanzione amministrativa l’ordinamento interno, ancorato ad un approccio di stretta legalità, fino al 2010 non ha esteso l’applicazione dei principi costituzionali (art. 25, comma 2, Cost., art. 27 Cost.) riservati esclusivamente alle sanzioni penali nell’ottica della tutela della certezza del diritto, ripudiando la concezione fluida e sostanzialistica di matière pénale, propugnata dalla Corte di Strasburgo fin dagli anni Settanta. Tale approccio sostanzialista ha consentito, infatti, alla giurisprudenza di Strasburgo di estendere le garanzie penalistiche convenzionali di cui agli artt. 2, 6, 7 e 4 Prot. VII CEDU anche alle sanzioni solo formalmente amministrative ma sostanzialmente penali alla luce dei tre criteri guida Engel, nell’ottica di un innalzamento del livello di tutela. Con la nota sentenza n. 196 del 2010, la Corte costituzionale, preso atto della giurisprudenza della Corte di Strasburgo, formatasi in particolare sull’interpretazione degli artt. 6 e 7 della CEDU, ricava il principio secondo il quale tutte le misure di carattere punitivoafflittivo, nelle quali rientrano alcune sanzioni definite amministrative dalla legge, devono essere soggette alla medesima disciplina della sanzione penale in senso stretto. Principio questo, del resto, desumibile dall’art. 25, secondo comma, Cost., il quale – data l’ampiezza della sua formulazione («Nessuno può essere punito…») – può essere interpretato nel senso che ogni intervento sanzionatorio, il quale non abbia prevalentemente la funzione di prevenzione criminale è applicabile soltanto se la legge che lo prevede risulti già vigente al momento della commissione del fatto sanzionato. Per effetto di tale rivoluzionaria pronuncia, le garanzie previste dal diritto interno e quelle convenzionali si trovano un rapporto di complementarietà e arricchimento reciproco, alla luce del criterio della massimizzazione delle garanzie dei diritti fondamentali, sancito dall’art. 53 della CEDU, che deriva dalla interazione tra Costituzione e la Convenzione. Tuttavia, questo processo di integrazione delle garanzie nell’ottica dell’innalzamento della tutela del cittadino subisce una battuta di arresto a partire dalla pronuncia della Corte costituzionale n. 193/2016 che ha inaugurato un filone giurisprudenziale restio ad accogliere l’idea di un coordinamento/integrazione fra gli ordinamenti interno e convenzionale volto a imporre vincoli stringenti all’ordinamento interno. Il disallineamento è da imputare soprattutto alla differente concezione della sanzione nei due diversi ordinamenti: mentre nel nostro sistema prevale la qualificazione normativa, la scelta politica del Legislatore di perseguire un certo interesse pubblico, nel sistema convenzionale prevale il fatto, ossia gli effetti che la sanzione produce sul trasgressore. Ebbene a una prima entusiastica apertura della Corte costituzionale agli orientamenti di Strasburgo, succede un trittico di sentenze (nn. 193/16, 43/17 e 68/17), con le quali la Corte costituzionale si allontana dalla giurisprudenza di Strasburgo, non estendendo alle sanzioni amministrative dense di carica afflittiva ulteriori strumenti di tutela interni propri del diritto penale, come la retroattività favorevole, la cessazione dell’esecuzione della sanzione applicata sulla base di una norma dichiarata illegittima e l’irretroattività della sanzione sopravvenuta ai fatti sanzionati, sull’assunto che rimanga nel margine di apprezzamento di cui gode ciascuno Stato la definizione dell’ambito di applicazione delle ulteriori tutele predisposte dal diritto nazionale. Dunque, dalla disamina della più recente giurisprudenza costituzionale, il dato più interessante è il mutato atteggiamento della Corte Costituzionale in ordine al modo di intendere i rapporti fra ordinamenti, interno e convenzionale. Rispetto alle sentenze “gemelle” nn. 348 e 349/2007, la Corte costituzionale dimostra una resistenza alla penetrazione del diritto convenzionale nell’ordinamento interno, ridimensionando il carattere vincolante degli obblighi assunti a livello internazionale e riducendo la Convenzione a mero strumento volto ad “assicurare uno standard minimo comune agli Stati aderenti e operante solo in via sussidiaria rispetto alle garanzie nazionali”. La mancata applicazione delle garanzie penalistiche nell’ambito di procedimenti volti all’irrogazione di misure, che al di là della loro qualificazione formale, presentino “una funzione sanzionatoria repressiva e non invece preventiva”, come ad esempio le sanzioni antitrust o le sanzioni Consob, ha determinato una grave infrazione della Convenzione con conseguente condanna da parte della Corte di Strasburgo. L’incompatibilità fra sistema punitivo interno e Convenzione viene soprattutto in evidenza con riferimento al mancato rispetto del divieto di ne bis in idem, garanzia espressamente prevista dal Prot. VII dell’art. 4 CEDU, nonché diritto fondamentale del cittadino europeo che permea tutti gli ordinamenti, ai sensi dell’art. 50 della Carta di Nizza. Tale principio che assume valenza assoluta a seguito della condanna del sistema a doppio binario sanzionatorio in materia di abuso di mercato con la sentenza Grande Stevens si evolve trasformandosi divieto a geometrie variabili nella sentenza A e B c. Norvegia della Corte di Strasburgo, che corregge il tiro riducendone sensibilmente il campo di applicazione a favore del cumulo di procedimenti e sanzioni. L’indebolimento del principio di ne bis in idem si verifica anche nell’ordinamento francese che, alla stregua di quello italiano, reprime determinate condotte con una duplice risposta sanzionatoria penale e amministrativa. La giurisprudenza costituzionale francese nell’intento di scongiurare il rischio di una condanna da parte della CEDU ha elaborato quattro criteri in presenza dei quali ricorre la violazione del divieto di ne bis in idem, restringendone in realtà ancor di più la portata.
Romeo, F. (2018). La sanzione amministrativa nel costituzionalismo multilivello.
La sanzione amministrativa nel costituzionalismo multilivello
ROMEO, FRANCESCA
2018-01-01
Abstract
Oggetto d’indagine del presente lavoro è l’attuale incidenza della Convenzione dei Diritti dell’Uomo, nella lettura offerta dalla Corte di Strasburgo, sull’ordinamento interno sotto un particolare profilo: quello della sanzione amministrativa. Partendo dall’analisi della sanzione amministrativa nell’ordinamento interno e dei principi che la regolano si dimostrerà come tale categoria risulta indissolubilmente collegata a quella della sanzione penale, di cui assume per certi versi i connotati. Nonostante gli sforzi della dottrina di individuare criteri discretivi e definirne la fisionomia, la sanzione amministrativa mostra un carattere duttile che si presta a svolgere, oltre a una funzione riparatoria/ripristinatoria dell’interesse leso dall’infrazione del trasgressore, anche finalità preventive e repressive alla stregua della pena. A conferma di tale assunto, vi sono alcuni fattori come la depenalizzazione che evidenzia l’intercambiabilità della sanzione penale con quella amministrativa e la matrice penalistica dei principi introdotti dalla L. 24 novembre 1981 n. 6891 . Tuttavia, l’applicazione dei principi e le garanzie introdotte dalla Legge del 1981 alle sanzioni amministrative è risultata poco efficace, essendo suscettibili di deroghe in assenza di una piena copertura costituzionale. In particolare, il problema si è posto con riferimento a quelle sanzioni che pur qualificate come amministrative dalla legge, in realtà rivelino un carattere talmente afflittivo da essere assimilabili a quelle penali. A tale peculiare categoria di sanzione amministrativa l’ordinamento interno, ancorato ad un approccio di stretta legalità, fino al 2010 non ha esteso l’applicazione dei principi costituzionali (art. 25, comma 2, Cost., art. 27 Cost.) riservati esclusivamente alle sanzioni penali nell’ottica della tutela della certezza del diritto, ripudiando la concezione fluida e sostanzialistica di matière pénale, propugnata dalla Corte di Strasburgo fin dagli anni Settanta. Tale approccio sostanzialista ha consentito, infatti, alla giurisprudenza di Strasburgo di estendere le garanzie penalistiche convenzionali di cui agli artt. 2, 6, 7 e 4 Prot. VII CEDU anche alle sanzioni solo formalmente amministrative ma sostanzialmente penali alla luce dei tre criteri guida Engel, nell’ottica di un innalzamento del livello di tutela. Con la nota sentenza n. 196 del 2010, la Corte costituzionale, preso atto della giurisprudenza della Corte di Strasburgo, formatasi in particolare sull’interpretazione degli artt. 6 e 7 della CEDU, ricava il principio secondo il quale tutte le misure di carattere punitivoafflittivo, nelle quali rientrano alcune sanzioni definite amministrative dalla legge, devono essere soggette alla medesima disciplina della sanzione penale in senso stretto. Principio questo, del resto, desumibile dall’art. 25, secondo comma, Cost., il quale – data l’ampiezza della sua formulazione («Nessuno può essere punito…») – può essere interpretato nel senso che ogni intervento sanzionatorio, il quale non abbia prevalentemente la funzione di prevenzione criminale è applicabile soltanto se la legge che lo prevede risulti già vigente al momento della commissione del fatto sanzionato. Per effetto di tale rivoluzionaria pronuncia, le garanzie previste dal diritto interno e quelle convenzionali si trovano un rapporto di complementarietà e arricchimento reciproco, alla luce del criterio della massimizzazione delle garanzie dei diritti fondamentali, sancito dall’art. 53 della CEDU, che deriva dalla interazione tra Costituzione e la Convenzione. Tuttavia, questo processo di integrazione delle garanzie nell’ottica dell’innalzamento della tutela del cittadino subisce una battuta di arresto a partire dalla pronuncia della Corte costituzionale n. 193/2016 che ha inaugurato un filone giurisprudenziale restio ad accogliere l’idea di un coordinamento/integrazione fra gli ordinamenti interno e convenzionale volto a imporre vincoli stringenti all’ordinamento interno. Il disallineamento è da imputare soprattutto alla differente concezione della sanzione nei due diversi ordinamenti: mentre nel nostro sistema prevale la qualificazione normativa, la scelta politica del Legislatore di perseguire un certo interesse pubblico, nel sistema convenzionale prevale il fatto, ossia gli effetti che la sanzione produce sul trasgressore. Ebbene a una prima entusiastica apertura della Corte costituzionale agli orientamenti di Strasburgo, succede un trittico di sentenze (nn. 193/16, 43/17 e 68/17), con le quali la Corte costituzionale si allontana dalla giurisprudenza di Strasburgo, non estendendo alle sanzioni amministrative dense di carica afflittiva ulteriori strumenti di tutela interni propri del diritto penale, come la retroattività favorevole, la cessazione dell’esecuzione della sanzione applicata sulla base di una norma dichiarata illegittima e l’irretroattività della sanzione sopravvenuta ai fatti sanzionati, sull’assunto che rimanga nel margine di apprezzamento di cui gode ciascuno Stato la definizione dell’ambito di applicazione delle ulteriori tutele predisposte dal diritto nazionale. Dunque, dalla disamina della più recente giurisprudenza costituzionale, il dato più interessante è il mutato atteggiamento della Corte Costituzionale in ordine al modo di intendere i rapporti fra ordinamenti, interno e convenzionale. Rispetto alle sentenze “gemelle” nn. 348 e 349/2007, la Corte costituzionale dimostra una resistenza alla penetrazione del diritto convenzionale nell’ordinamento interno, ridimensionando il carattere vincolante degli obblighi assunti a livello internazionale e riducendo la Convenzione a mero strumento volto ad “assicurare uno standard minimo comune agli Stati aderenti e operante solo in via sussidiaria rispetto alle garanzie nazionali”. La mancata applicazione delle garanzie penalistiche nell’ambito di procedimenti volti all’irrogazione di misure, che al di là della loro qualificazione formale, presentino “una funzione sanzionatoria repressiva e non invece preventiva”, come ad esempio le sanzioni antitrust o le sanzioni Consob, ha determinato una grave infrazione della Convenzione con conseguente condanna da parte della Corte di Strasburgo. L’incompatibilità fra sistema punitivo interno e Convenzione viene soprattutto in evidenza con riferimento al mancato rispetto del divieto di ne bis in idem, garanzia espressamente prevista dal Prot. VII dell’art. 4 CEDU, nonché diritto fondamentale del cittadino europeo che permea tutti gli ordinamenti, ai sensi dell’art. 50 della Carta di Nizza. Tale principio che assume valenza assoluta a seguito della condanna del sistema a doppio binario sanzionatorio in materia di abuso di mercato con la sentenza Grande Stevens si evolve trasformandosi divieto a geometrie variabili nella sentenza A e B c. Norvegia della Corte di Strasburgo, che corregge il tiro riducendone sensibilmente il campo di applicazione a favore del cumulo di procedimenti e sanzioni. L’indebolimento del principio di ne bis in idem si verifica anche nell’ordinamento francese che, alla stregua di quello italiano, reprime determinate condotte con una duplice risposta sanzionatoria penale e amministrativa. La giurisprudenza costituzionale francese nell’intento di scongiurare il rischio di una condanna da parte della CEDU ha elaborato quattro criteri in presenza dei quali ricorre la violazione del divieto di ne bis in idem, restringendone in realtà ancor di più la portata.| File | Dimensione | Formato | |
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