Durante questo ciclo di dottorato, attraverso le lezioni ed i seminari tenuti da illustri docenti, la mia attenzione e la mia curiosità sono state attratte dall’antropologia forense, disciplina che compone il mosaico delle scienze forensi. Questa dottrina ricopre particolare importanza all’interno delle scienze forensi, perché deputata all’identificazione dei resti umani appartenenti ad un soggetto sconosciuto che possono essere rinvenuti in diverso stato di conservazione. Tale peso è rilevante sia per motivi legali che per motivi strettamente umanitari. L’antropologia forense è un’applicazione dell’antropologia fisica al processo legale. Gli antropologi forensi utilizzano i metodi scientifici standard dell’antropologia fisica per assistere la legge nella risoluzione di crimini. Spesso l’antropologo lavora insieme ad un team di esperti, quali patologi forensi, odontologi, polizia scientifica ed organi investigativi, per stabilire causa e modalità di decesso ed epoca della morte. L’antropologo forense ha il compito aggiuntivo di suggerire età, sesso, statura e tratto distintivo “leggibile” sullo scheletro. I metodi e le tecniche per stabilire sesso, età razza, statura, e per analizzare traumi sono utili all’antropologo per capire le differenze verticali e orizzontali (nel tempo e nello spazio) delle popolazioni mondiali. Quando gli stessi metodi vengono applicati a resti moderni di soggetti sconosciuti, con lo scopo di identificare e stabilire una modalità di morte, allora siamo nell’ambito forense. Spesso si tende a confondere il medico legale con l’antropologo forense. Esistono delle differenze di percorso formativo e di campo d’indagine, anche se la stretta collaborazione delle due discipline si rende necessaria per ottenere una completezza di risultati. L’antropologo forense è un esperto delle ossa, dello scheletro. Il patologo forense è un medico che effettua autopsie con lo scopo di stabilire una causa di morte, classificata in diversi modi come causa naturale, accidentale, suicida, omicida, ecc. Mentre l’antropologo forense focalizza l’osso, il patologo forense focalizza l’attenzione sui tessuti molli. Questo spiega perché si possa incorrere in errori valutativi, quando una disciplina cerchi di prevaricare l’altra: il medico legale non può improvvisarsi antropologo e l’antropologo non può sopperire al medico legale. Il problema in Italia è che non si è ancora diffusa una cultura antropologica forense sicché spesso è il medico da solo che si trova a dare giudizi tecnici fuori delle proprie competenze, incappando in errori madornali (scambio d’ossa di pollo per ossa umane, perdita di dettagli quali fratture ossee ecc.) o in impossibilità identificativa per mancanza di dati. Le indagini riguardanti un’ipotesi di reato hanno inizio a partire dalla scena del crimine. L’intervento sul luogo del delitto, cioè il sopralluogo giudiziario, coinvolge o dovrebbe coinvolgere un insieme di esperti in Scienze Forensi, atti ognuno a raccogliere informazioni, repertare e conservare indizi probatori il dato di fatto. I successivi passi verso la risoluzione del caso portano necessariamente alla separazione del team, ognuno operante nel settore di sua competenza. Il medico legale, l’antropologo e l’odontologo, ad esempio, una volta effettuati i prelievi sul luogo, necessitano di analisi più approfondite, che vanno dall’esame autoptico ad una serie di analisi di laboratorio, generalmente finalizzate a ricostruire un profilo biologico, un’identità personale quando possibile, una causa di morte ed un’epoca della morte. I risultati che ne derivano vengono poi tramutati in consulenze tecniche o perizie, che hanno lo scopo di tradurre al magistrato il dato tecnico specialistico. Il Magistrato, proprio per il ruolo che ricopre è, per antonomasia, il “peritus peritorum”. Poiché le sue competenze tecniche non gli consentono di portare avanti una specifica indagine sul quesito da egli stesso formulato, è tenuto a nominare, per tale compito, un esperto. In questa tesi di dottorato si è proceduto, inoltre, ad illustrare e ad approfondire gli istituti della perizia e della consulenza tecnica nel sistema giudiziale italiano, con particolare riferimento al riflesso derivato dall’attività svolta dal perito e dal consulente tecnico sul libero giudizio del magistrato. Per evidenziare come e in quale misura il convincimento del giudice possa essere influenzato dall’attività di consulenza e dall’attività peritale, è stato necessario ripercorrere le varie procedure che disciplinano il complesso ordinamento italiano, delineando un excursus delle diverse procedure: civile, penale, del lavoro, della navigazione e fallimentare. Il punto focale che emerge dal nostro sistema processuale, dopo l’introduzione del cosiddetto “giusto processo” (legge cost. 23 novembre 1999, n. 2, comma1), è la contrapposizione delle parti, al cui centro si pone la figura del giudice (super partes), che viene coadiuvato, nelle attività tecniche, dai professionisti, al fine di pervenire alla cosiddetta “verità processuale”. Il ricorso alla perizia ed alla consulenza tecnica ha avuto un’evoluzione altalenante nel corso di questo secolo. Infatti, mentre il codice di rito del 1913 prevedeva l’utilizzo smodato della perizia, il legislatore del 1930 fu piuttosto restio nell’ammettere scienze “non giuridiche”, considerate “non esatte”, all’interno del processo. L’art. 314 del codice penale del 1930 dava facoltà al giudice di ricorrere alla perizia, attribuendogli una sorta di autarchia culturale sottintendendo l’inesistenza di un obbligo per il giudice di richiedere l’ausilio di un consulente tecnico esperto. Il legislatore del 1930 pose difatti espliciti divieti di tipo oggettivo (art. 314 comma 2, c.p.p. 1930), rendendo il processo penale non permeabile al contributo delle scienze “umane” quali la psicologia, la criminologia, l’antropologia criminale. Da ciò si coglie una presunzione iuris et de iure di capacità del giudice di risolvere con i propri strumenti culturali i dubbi sollevati nel corso della fattispecie da esaminare. Un’ulteriore evoluzione il sistema giudiziario italiano lo ebbe con il Regio Decreto Legge del 20 luglio del 1934, n. 1404, che concesse in materia minorile l’utilizzo della perizia e previde la “doverosità” delle indagini sulla personalità del minore, svolte dal perito, per consentire al giudice un quadro completo sotto l’aspetto psico –fisico e morale dell’imputato. Si dovette poi attendere il 1955, quando il legislatore stabilì che il giudice “dovesse” disporre la perizia, sostituendo definitivamente con un obbligo la facoltà che ancora era in vigore dal codice di rito del 1934. Con il nuovo rito accusatorio, alle soglie del ventunesimo secolo, l’orientamento legislativo è completamente mutato nel senso che la perizia è obbligatoria “quando occorre svolgere indagini o acquisire dati o valutazioni che richiedono specifiche competenze tecniche, scientifiche o artistiche” (art. 220, primo comma del c.p.p.). Il giudice, quindi, ogni qual volta che egli si trovi a fronteggiare questioni che necessitano di particolari conoscenze tecnico–specialistiche (ingegneristiche, mediche, balistiche, etc.), si fa assistere da uno o più professionisti che sceglie tra quelli che sono iscritti in appositi albi tenuti presso il Tribunale o “tra persone fornite di particolare competenza nella specifica disciplina”. E’ previsto inoltre che il conferimento dell’incarico possa essere indirizzato a più persone “quando le indagini e le valutazioni siano di notevole complessità ovvero richiedano distinte conoscenze in differenti discipline” (art. 221 c.p.p.). Tali professionisti assumono denominazioni diverse a seconda dell'Organo che conferisce loro l’incarico: Consulente Tecnico d'Ufficio (C.T.U.) se l'incarico proviene dal giudice civile; Consulente Tecnico del Pubblico Ministero (PM), quando l'incarico viene conferito nel corso delle indagini preliminari dallo stesso PM; Consulente Tecnico di Parte, quando l’incarico viene conferito dalla parte processuale; Perito, quando giudice nel corso del processo penale dà incarico al professionista. Il compito del professionista è quello di dare immediata risposta ai quesiti posti dal giudice, nel lasso di tempo, che generalmente è di novanta giorni (art. 227, comma 3, c.p.p.), che il magistrato lascia al professionista per adempiere ai propri obblighi. Queste risposte, date all’organo giudicante attraverso perizia o eventualmente consulenza tecnica, sono determinanti al fine della decisione finale. Infatti, nonostante il magistrato sia legato al principio del cosiddetto “libero convincimento”, questi non può compiere scelte arbitrarie svincolate dai risultati dell’acquisizione probatoria. Il giudice, secondo quanto diceva Pessina “è libero di credere o non credere alle prove addotte, ma non può uscire dai confini legali” e di ciò che è stato provato in sede dibattimentale. In base all’art. 226, comma 2, c.p.p. il giudice pone i quesiti, “sentiti i periti, i consulenti tecnici, il pubblico ministero ed i difensori presenti”, assurgendo così il quesito a frutto dell’incontro sul tema della prova peritale, in cui il patrimonio di conoscenze di coloro che a vario titolo intervengono nel giudizio si sintetizzano nel dispositivo giudiziale.
Giuliani, V. (2008). Dal sopralluogo giudiziario agli esami di laboratorio: la perizia e la consulenza tecnica nel libero convincimento del giudice.
Dal sopralluogo giudiziario agli esami di laboratorio: la perizia e la consulenza tecnica nel libero convincimento del giudice
2008-03-27
Abstract
Durante questo ciclo di dottorato, attraverso le lezioni ed i seminari tenuti da illustri docenti, la mia attenzione e la mia curiosità sono state attratte dall’antropologia forense, disciplina che compone il mosaico delle scienze forensi. Questa dottrina ricopre particolare importanza all’interno delle scienze forensi, perché deputata all’identificazione dei resti umani appartenenti ad un soggetto sconosciuto che possono essere rinvenuti in diverso stato di conservazione. Tale peso è rilevante sia per motivi legali che per motivi strettamente umanitari. L’antropologia forense è un’applicazione dell’antropologia fisica al processo legale. Gli antropologi forensi utilizzano i metodi scientifici standard dell’antropologia fisica per assistere la legge nella risoluzione di crimini. Spesso l’antropologo lavora insieme ad un team di esperti, quali patologi forensi, odontologi, polizia scientifica ed organi investigativi, per stabilire causa e modalità di decesso ed epoca della morte. L’antropologo forense ha il compito aggiuntivo di suggerire età, sesso, statura e tratto distintivo “leggibile” sullo scheletro. I metodi e le tecniche per stabilire sesso, età razza, statura, e per analizzare traumi sono utili all’antropologo per capire le differenze verticali e orizzontali (nel tempo e nello spazio) delle popolazioni mondiali. Quando gli stessi metodi vengono applicati a resti moderni di soggetti sconosciuti, con lo scopo di identificare e stabilire una modalità di morte, allora siamo nell’ambito forense. Spesso si tende a confondere il medico legale con l’antropologo forense. Esistono delle differenze di percorso formativo e di campo d’indagine, anche se la stretta collaborazione delle due discipline si rende necessaria per ottenere una completezza di risultati. L’antropologo forense è un esperto delle ossa, dello scheletro. Il patologo forense è un medico che effettua autopsie con lo scopo di stabilire una causa di morte, classificata in diversi modi come causa naturale, accidentale, suicida, omicida, ecc. Mentre l’antropologo forense focalizza l’osso, il patologo forense focalizza l’attenzione sui tessuti molli. Questo spiega perché si possa incorrere in errori valutativi, quando una disciplina cerchi di prevaricare l’altra: il medico legale non può improvvisarsi antropologo e l’antropologo non può sopperire al medico legale. Il problema in Italia è che non si è ancora diffusa una cultura antropologica forense sicché spesso è il medico da solo che si trova a dare giudizi tecnici fuori delle proprie competenze, incappando in errori madornali (scambio d’ossa di pollo per ossa umane, perdita di dettagli quali fratture ossee ecc.) o in impossibilità identificativa per mancanza di dati. Le indagini riguardanti un’ipotesi di reato hanno inizio a partire dalla scena del crimine. L’intervento sul luogo del delitto, cioè il sopralluogo giudiziario, coinvolge o dovrebbe coinvolgere un insieme di esperti in Scienze Forensi, atti ognuno a raccogliere informazioni, repertare e conservare indizi probatori il dato di fatto. I successivi passi verso la risoluzione del caso portano necessariamente alla separazione del team, ognuno operante nel settore di sua competenza. Il medico legale, l’antropologo e l’odontologo, ad esempio, una volta effettuati i prelievi sul luogo, necessitano di analisi più approfondite, che vanno dall’esame autoptico ad una serie di analisi di laboratorio, generalmente finalizzate a ricostruire un profilo biologico, un’identità personale quando possibile, una causa di morte ed un’epoca della morte. I risultati che ne derivano vengono poi tramutati in consulenze tecniche o perizie, che hanno lo scopo di tradurre al magistrato il dato tecnico specialistico. Il Magistrato, proprio per il ruolo che ricopre è, per antonomasia, il “peritus peritorum”. Poiché le sue competenze tecniche non gli consentono di portare avanti una specifica indagine sul quesito da egli stesso formulato, è tenuto a nominare, per tale compito, un esperto. In questa tesi di dottorato si è proceduto, inoltre, ad illustrare e ad approfondire gli istituti della perizia e della consulenza tecnica nel sistema giudiziale italiano, con particolare riferimento al riflesso derivato dall’attività svolta dal perito e dal consulente tecnico sul libero giudizio del magistrato. Per evidenziare come e in quale misura il convincimento del giudice possa essere influenzato dall’attività di consulenza e dall’attività peritale, è stato necessario ripercorrere le varie procedure che disciplinano il complesso ordinamento italiano, delineando un excursus delle diverse procedure: civile, penale, del lavoro, della navigazione e fallimentare. Il punto focale che emerge dal nostro sistema processuale, dopo l’introduzione del cosiddetto “giusto processo” (legge cost. 23 novembre 1999, n. 2, comma1), è la contrapposizione delle parti, al cui centro si pone la figura del giudice (super partes), che viene coadiuvato, nelle attività tecniche, dai professionisti, al fine di pervenire alla cosiddetta “verità processuale”. Il ricorso alla perizia ed alla consulenza tecnica ha avuto un’evoluzione altalenante nel corso di questo secolo. Infatti, mentre il codice di rito del 1913 prevedeva l’utilizzo smodato della perizia, il legislatore del 1930 fu piuttosto restio nell’ammettere scienze “non giuridiche”, considerate “non esatte”, all’interno del processo. L’art. 314 del codice penale del 1930 dava facoltà al giudice di ricorrere alla perizia, attribuendogli una sorta di autarchia culturale sottintendendo l’inesistenza di un obbligo per il giudice di richiedere l’ausilio di un consulente tecnico esperto. Il legislatore del 1930 pose difatti espliciti divieti di tipo oggettivo (art. 314 comma 2, c.p.p. 1930), rendendo il processo penale non permeabile al contributo delle scienze “umane” quali la psicologia, la criminologia, l’antropologia criminale. Da ciò si coglie una presunzione iuris et de iure di capacità del giudice di risolvere con i propri strumenti culturali i dubbi sollevati nel corso della fattispecie da esaminare. Un’ulteriore evoluzione il sistema giudiziario italiano lo ebbe con il Regio Decreto Legge del 20 luglio del 1934, n. 1404, che concesse in materia minorile l’utilizzo della perizia e previde la “doverosità” delle indagini sulla personalità del minore, svolte dal perito, per consentire al giudice un quadro completo sotto l’aspetto psico –fisico e morale dell’imputato. Si dovette poi attendere il 1955, quando il legislatore stabilì che il giudice “dovesse” disporre la perizia, sostituendo definitivamente con un obbligo la facoltà che ancora era in vigore dal codice di rito del 1934. Con il nuovo rito accusatorio, alle soglie del ventunesimo secolo, l’orientamento legislativo è completamente mutato nel senso che la perizia è obbligatoria “quando occorre svolgere indagini o acquisire dati o valutazioni che richiedono specifiche competenze tecniche, scientifiche o artistiche” (art. 220, primo comma del c.p.p.). Il giudice, quindi, ogni qual volta che egli si trovi a fronteggiare questioni che necessitano di particolari conoscenze tecnico–specialistiche (ingegneristiche, mediche, balistiche, etc.), si fa assistere da uno o più professionisti che sceglie tra quelli che sono iscritti in appositi albi tenuti presso il Tribunale o “tra persone fornite di particolare competenza nella specifica disciplina”. E’ previsto inoltre che il conferimento dell’incarico possa essere indirizzato a più persone “quando le indagini e le valutazioni siano di notevole complessità ovvero richiedano distinte conoscenze in differenti discipline” (art. 221 c.p.p.). Tali professionisti assumono denominazioni diverse a seconda dell'Organo che conferisce loro l’incarico: Consulente Tecnico d'Ufficio (C.T.U.) se l'incarico proviene dal giudice civile; Consulente Tecnico del Pubblico Ministero (PM), quando l'incarico viene conferito nel corso delle indagini preliminari dallo stesso PM; Consulente Tecnico di Parte, quando l’incarico viene conferito dalla parte processuale; Perito, quando giudice nel corso del processo penale dà incarico al professionista. Il compito del professionista è quello di dare immediata risposta ai quesiti posti dal giudice, nel lasso di tempo, che generalmente è di novanta giorni (art. 227, comma 3, c.p.p.), che il magistrato lascia al professionista per adempiere ai propri obblighi. Queste risposte, date all’organo giudicante attraverso perizia o eventualmente consulenza tecnica, sono determinanti al fine della decisione finale. Infatti, nonostante il magistrato sia legato al principio del cosiddetto “libero convincimento”, questi non può compiere scelte arbitrarie svincolate dai risultati dell’acquisizione probatoria. Il giudice, secondo quanto diceva Pessina “è libero di credere o non credere alle prove addotte, ma non può uscire dai confini legali” e di ciò che è stato provato in sede dibattimentale. In base all’art. 226, comma 2, c.p.p. il giudice pone i quesiti, “sentiti i periti, i consulenti tecnici, il pubblico ministero ed i difensori presenti”, assurgendo così il quesito a frutto dell’incontro sul tema della prova peritale, in cui il patrimonio di conoscenze di coloro che a vario titolo intervengono nel giudizio si sintetizzano nel dispositivo giudiziale.File | Dimensione | Formato | |
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