A partire dagli anni Cinquanta e Sessanta del Novecento, mentre l’ingegneria italiana vive la sua età dell’oro, si assiste alla diffusa tendenza da parte di progettisti e imprese nazionali a cercare fortuna oltre confine. Stimolano questa propensione sia le trasformazioni del Paese conseguenti al boom economico e ai successivi, difficili anni di crisi economica e politica, sia il crollo degli imperi coloniali e dei loro regimi protezionistici, con la conseguente apertura di mercati prima inaccessibili. Uno studio specifico, condotto nell’ambito della ricerca SIXXI, in corso presso l’Università di Roma Tor Vergata, è stato riservato all’attività degli italiani che, dal secondo dopoguerra, si dedicano alla realizzazione all’estero di grandi strutture, per verificare se anche le opere esportate presentino, pur in un diverso contesto, i tratti distintivi e identitari dell’ingegneria Made in Italy. Dagli studi è emerso che a parte Pier Luigi Nervi – l’unico che ha veramente l’occasione di vedere le sue opere costruite nei cinque continenti –, gli italiani riescono a operare in questi anni quasi esclusivamente nel cosiddetto Terzo mondo e nelle nazioni in via di sviluppo. Nel settore delle grandi dighe le imprese conquistano, effettivamente, una rilevante fetta di mercato degli enormi appalti finanziati dalla Banca Mondiale per stimolare l’industrializzazione in Africa, Asia e Sudamerica, ma realizzano per lo più opere progettate da grandi società d’ingegneria straniere. I lavori nei Paesi più avanzati tecnologicamente, invece, come quelli dell’Europa occidentale, gli Stati Uniti e il Giappone restano sostanzialmente fuori dalla portata delle ditte italiane e del loro caratteristico modo di costruire e, soprattutto, dei migliori rappresentanti della nostra Scuola di ingegneria. Per rintracciare all’estero strutture Italian style bisogna allora guardare anche a una particolare produzione: quella costituita dai progetti più visionari e utopici, tanto degli ingegneri – compresi i Maestri della Scuola – quanto degli architetti che cercano di esportare un’interpretazione «artistica» della struttura, inquadrandola nella più ampia vicenda della storia dell’ingegneria italiana del Novecento.

Capurso, G., Martire, F. (2022). Tra utopia e futurismo: strutture italiane all’estero nella seconda metà del Novecento. RASSEGNA DI ARCHITETTURA E URBANISTICA, LVII(168), 44-54.

Tra utopia e futurismo: strutture italiane all’estero nella seconda metà del Novecento

G. Capurso;
2022-12-01

Abstract

A partire dagli anni Cinquanta e Sessanta del Novecento, mentre l’ingegneria italiana vive la sua età dell’oro, si assiste alla diffusa tendenza da parte di progettisti e imprese nazionali a cercare fortuna oltre confine. Stimolano questa propensione sia le trasformazioni del Paese conseguenti al boom economico e ai successivi, difficili anni di crisi economica e politica, sia il crollo degli imperi coloniali e dei loro regimi protezionistici, con la conseguente apertura di mercati prima inaccessibili. Uno studio specifico, condotto nell’ambito della ricerca SIXXI, in corso presso l’Università di Roma Tor Vergata, è stato riservato all’attività degli italiani che, dal secondo dopoguerra, si dedicano alla realizzazione all’estero di grandi strutture, per verificare se anche le opere esportate presentino, pur in un diverso contesto, i tratti distintivi e identitari dell’ingegneria Made in Italy. Dagli studi è emerso che a parte Pier Luigi Nervi – l’unico che ha veramente l’occasione di vedere le sue opere costruite nei cinque continenti –, gli italiani riescono a operare in questi anni quasi esclusivamente nel cosiddetto Terzo mondo e nelle nazioni in via di sviluppo. Nel settore delle grandi dighe le imprese conquistano, effettivamente, una rilevante fetta di mercato degli enormi appalti finanziati dalla Banca Mondiale per stimolare l’industrializzazione in Africa, Asia e Sudamerica, ma realizzano per lo più opere progettate da grandi società d’ingegneria straniere. I lavori nei Paesi più avanzati tecnologicamente, invece, come quelli dell’Europa occidentale, gli Stati Uniti e il Giappone restano sostanzialmente fuori dalla portata delle ditte italiane e del loro caratteristico modo di costruire e, soprattutto, dei migliori rappresentanti della nostra Scuola di ingegneria. Per rintracciare all’estero strutture Italian style bisogna allora guardare anche a una particolare produzione: quella costituita dai progetti più visionari e utopici, tanto degli ingegneri – compresi i Maestri della Scuola – quanto degli architetti che cercano di esportare un’interpretazione «artistica» della struttura, inquadrandola nella più ampia vicenda della storia dell’ingegneria italiana del Novecento.
dic-2022
Pubblicato
Rilevanza internazionale
Articolo
Esperti anonimi
Settore ICAR/10 - ARCHITETTURA TECNICA
Settore CEAR-08/A - Architettura tecnica
Italian
Storia dell'ingegneria strutturale; Italia; Estero; Novecento
Capurso, G., Martire, F. (2022). Tra utopia e futurismo: strutture italiane all’estero nella seconda metà del Novecento. RASSEGNA DI ARCHITETTURA E URBANISTICA, LVII(168), 44-54.
Capurso, G; Martire, F
Articolo su rivista
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