Il patrimonio comune dell’umanità riguarda interessi condivisi dell’intera Comunità internazionale “cristallizzati” in specifici spazi, beni, risorse. In una prima fase, se ne è reclamata soprattutto la equa condivisione dei benefici, in particolare con riferimento a risorse esauribili o saturabili degli spazi internazionali. Non è anacronistico tornare a riferirsi oggi al discorso che l’ambasciatore Arvid Pardo ha tenuto all’Assemblea generale delle Nazioni Unite nel 1967, in cui per la prima volta si sosteneva il concetto che i fondali marini internazionali fossero “patrimonio comune dell’umanità” e dovevano perciò essere adeguatamente regolati nell’ordinamento internazionale. Nel tempo, infatti, la consapevolezza che la Comunità internazionale condivide un “patrimonio comune” non è certo scemata. Si sta sviluppando, operativamente strutturandosi in modi diversi a seconda delle caratteristiche di ciascuna delle “componenti” di tale patrimonio, sulla scorta dell’esperienza nel frattempo maturata, e progressivamente corrispondendo alle esigenze espresse dalla Comunità, attraverso i mezzi che essa è in grado di mettere in campo. Ed ogni nuovo elemento si inserisce in un quadro in continua evoluzione, che va continuamente reinterpretato e ricostruito nel suo complesso. Le sfide per le quali continua a reclamarsi l’applicazione del “principio”, focalizzandosi sulle nuove priorità, sempre più riguardano la condivisione di responsabilità, common concerns per la conservazione di “ricchezze” culturali e risorse naturali rinnovabili che devono essere trasmesse alle generazioni future, grazie ad una gestione adeguata. Già nella Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare conclusa a Montego Bay nel 1982 trovava evidentemente espressione la preoccupazione della protezione dell’ambiente marino, ma è cinquant’anni dopo lo storico discorso di Arvid Pardo che i negoziatori del progetto di trattato sulla conservazione e l’uso sostenibile della diversità biologica marina di aree al di là della giurisdizione nazionale (BBNJ) si sono trovati di nuovo a discutere sull’introduzione del “principio del patrimonio comune dell’umanità” in un trattato di diritto del mare da applicarsi all’Area internazionale dei fondali marini (e stavolta anche alla colonna d’acqua sovrastante), non solo per per mettere a punto un meccanismo volto a condividere tra tutti i benefici di una risorsa sfruttata da qualcuno, bensì innanzitutto per conservare una grande ricchezza condivisa: la diversità biologica marina. Convivono, dunque, nel progetto del nuovo trattato, l’esigenza solidaristica intragenerazionale della condivisione dei benefici e il common concern della sostenibilità intergenerazionale. Per quest’ultima in particolare, le soluzioni proposte fanno ampiamente “tesoro” di esperienze maturate in ambiti internazionali diversi, ma comparabili in quanto riguardanti common concerns, come quella della Convenzione UNESCO del 1972 sul patrimonio mondiale culturale e naturale e della Convenzione di Aarhus del 1998 sull’accesso alle informazioni, la partecipazione del pubblico ai processi decisionali e l’accesso alla giustizia in materia ambientale. Nonostante il regime del BBNJ sia destinato ad essere applicato esclusivamente in uno spazio internazionale, mentre la Convenzione del 1972 si applica nel territorio degli Stati, entrambi i trattati, infatti, basano la loro efficacia principalmente sulla responsabilizzazione di ciascuno Stato sotto il cui potere di governo si svolgono le attività regolamentate, affiancandolo attraverso meccanismi di condivisione internazionale delle scelte con un apposito organismo internazionale (il Comitato intergovernativo nella Convenzione del 1972, l’Organo tecnico-scientifico nel BBNJ), oltre che di assistenza internazionale in termini finanziari e di capacity building. La Convenzione di Aarhus, d’altra parte, è concepita per dare voce negli Stati alla “società civile”, e le procedure partecipative del BBNJ volte a garantire la migliore efficacia possibile degli standard di valutazione di impatto ambientale in esso stabiliti, a questa avanzata prospettiva di partecipazione di tutti gli stakeholders aggiungono – oltre alla soft law di un apposito organismo internazionale tecnico-scientifico, come si è appena ricordato – anche il ruolo partecipativo di tutti gli altri Stati contraenti. Questo meccanismo di strutturata partecipazione dialogica delle altre Parti del trattato richiama, invece, alla mente il regime di giurisdizione funzionale applicato alla ZEE e alla PC nella Convenzione UNESCO del 2001 sulla protezione del patrimonio culturale subacqueo – un altro common concern. Anche in tale trattato, infatti, è prevista in ogni specifico caso la cooperazione ad hoc degli Stati che esprimono un loro particolare interesse perché, attraverso un impegno collettivo, l’interesse comune possa essere meglio protetto. Il BBNJ non è ancora una fonte di diritto internazionale, ma il testo prodotto in esito ai lavori intergovernativi è già un risultato negoziale significativo, non solo nella sperabile prospettiva di una sua rapida conclusione, ampia ratifica ed entrata in vigore, ma anche per le caratteristiche dei modelli innovativi di cooperazione in esso delineati. Molto rivelano sull’interazione che si ritiene necessaria tra soggetti di base e soggetti funzionali della Comunità internazionale per l’adeguata protezione della diversità biologica marina quale patrimonio comune dell’umanità. Il coinvolgimento attivo dello Stato in procedure dialogiche in seno a organizzazioni internazionali per l’applicazione degli obblighi di protezione del patrimonio comune è particolarmente necessario per i beni presenti sotto la sovranità degli Stati (beni culturali e naturali), ma è importante anche negli spazi internazionali, perché l’efficacia della regolamentazione internazionale dipende in larga parte dall’effettivo controllo da parte di ciascuno Stato dell’operato dei propri mezzi (e a volte da parte dello Stato costiero in alcune sue zone di giurisdizione). Ebbene, la protezione della diversità biologica negli spazi marini al di là della giurisdizione degli Stati nel BBNJ è declinata, per la valutazione di impatto ambientale, attraverso procedure partecipative tra Stati, “società civile” e organi della Convenzione senza che questi ultimi assumano necessariamente un ruolo direttivo. Si fa, infatti, affidamento sull’effetto partecipativo che si presuppone scaturisca spontaneamente dalla messa in opera di un efficiente meccanismo di scambio di informazioni (clearing house mechanism). Questo aspetto “partecipativo” degli Stati e della società civile attraverso il clearing house mechanism nel BBNJ è particolarmente innovativo soprattutto per quanto riguarda i “capitoli” dell’applicazione della valutazione di impatto ambientale e dell’equa condivisione dei benefici tratti dalle risorse genetiche marine, mentre per favorire il capacity building tale tipo di soluzione è già praticato in altri trattati, soprattutto in materia ambientale. Come si è accennato, in particolare per la valutazione di impatto ambientale, l’apertura al contributo di tutti i soggetti e gli enti interessati in tutte le fasi della procedura – mutatis mutandis – si rapporta naturalmente alla ratio della Convenzione di Aarhus. Nella Convenzione di Aarhus si afferma che il testo è stato concordato “Recognizing (…) the importance of the respective roles that individual citizens, non-governmental organizations and the private sector can play in environmental protection”. Ebbene, in questo caso il BBNJ “orchestra”, con il monitoraggio di organi internazionali, oltre alla partecipazione dei soggetti privati e delle organizzazioni internazionali, anche la partecipazione degli altri Stati nell’adozione, da parte di uno di essi, delle decisioni di valutazione di impatto ambientale nelle aree marine internazionali. Tali decisioni, infatti, restano di competenza e responsabilità di ciascuno Stato per le attività da esso governate in mare internazionale e la corretta condivisione di tutte le informazioni attraverso il clearing house mechanism è la soluzione operativa scelta per fare in modo che tutti i soggetti – e gli altri attori coinvolti – possano offrire un loro apporto informativo o valutativo, ciascuno secondo il proprio ruolo, all’adozione di decisioni adeguate per la tutela del bene comune. Secondo questo modello di cooperazione non solo tutte le informazioni rilevanti possono essere condivise tempestivamente (questa è la “normale” funzione dei clearing house mechanisms), ma soprattutto gli Stati hanno modo di esprimersi e confrontarsi preventivamente sulle loro eventuali diverse posizioni in merito a come vada protetto adeguatamente, in ciascun caso concreto, il bene comune, avendo così occasione di elaborare la sintesi ottimale delle diverse posizioni – e dunque degli interessi individuali con gli interessi collettivi –, con l’autorevole supporto degli organi internazionali. Per i common concerns, in primis la protezione dell’ambiente naturale in tutti i suoi aspetti, procedure partecipative di questo tipo potrebbero sensibilmente far avanzare il livello di efficacia complessiva delle misure di protezione, anche attraverso la progressiva collettiva crescita di consapevolezza e impegno politico che potrebbero contribuire ad innescare, producendo così risultati anche oltre l’ambito di applicazione degli obblighi internazionalmente assunti. Naturalmente, i rischi che il meccanismo non produca davvero questi virtuosi risultati sono molteplici. Innanzitutto se non vengono condivise correttamente le informazioni attraverso il meccanismo di clearing house. Le direttive operative che andranno sviluppate a livello internazionale potranno disporre procedure utili a scongiurare tale rischio, dimostrando come, anche in questo caso, la “tensione” tra sovranità e bene comune non debba “significare contraddizione”. Il diritto del mare è, dunque, ancora una volta preziosa chiave di lettura dei processi evolutivi del diritto internazionale. Da un lato, infatti, per quanto riguarda l’argomento dell’equa condivisione dei benefici del patrimonio comune, la sofferta vicenda negoziale della delega all’Autorità internazionale dei fondali marini per la gestione a livello universale dell’accesso alle risorse esauribili dell’Area, nonché la prassi precedente all’entrata in vigore della Convenzione di Montego Bay del 1982, si rispecchiano negli attuali sviluppi della prassi in materia di diritto cosmico, dove pure sarebbe necessario dare mandato ad un’organizzazione internazionale per regolare l’accesso alle risorse. D’altro lato, il BBNJ, per la protezione della diversità biologica nelle aree marine al di là della giurisdizione degli Stati, appronta un meccanismo procedurale ampiamente partecipativo, in cui Stati, organizzazioni e “società civile” sono chiamati ad interagire e convergere su questioni sostanziali per garantire il risultato della protezione del common concern. Le nuove priorità ed impostazioni partecipative, dunque, si sommano – non si sostituiscono – all’approccio più risalente dell’internazionalismo istituzionale, tutt’oggi imprescindibile per regolare l’accesso a risorse esauribili (o saturabili) di spazi comuni. Quando l’internazionalismo istituzionale viene efficacemente declinato in modalità partecipative, si evidenziano le responsabilità degli Stati sovrani nella protezione e gestione razionale dei beni comuni, pur mantenendosi generalmente in capo alle organizzazioni internazionali ruoli di guida e supervisione. Per converso, però, anche in esito agli input pervenuti dai diversi soggetti che si sono espressi durante la procedura partecipativa, le indicazioni di comportamento rivolte agli Stati dall’organizzazione internazionale, pur non avendo forza vincolante, sono espressione di un organo internazionale che decide in autonomia, ma nel frattempo ha già ascoltato la posizione degli Stati e degli altri stakeholders che volevano prendere posizione in merito alla specifica questione, e da ciò traggono una maggiore forza, quale sintesi autorevole e necessaria in nome del bene comune. Attraverso il rapporto dialogico costruttivo tra soggetti ha modo di sciogliersi quella tensione tra sovranità e interesse comune che non dovrebbe mai sfociare in una contraddizione.

Mucci, F. (2023). Dall'equa condivisione dei benefici ai clearing house mechanisms: verso modelli partecipativi di internazionalismo istituzionale per la protezione del patrimonio comune. Editoriale Scientifica.

Dall'equa condivisione dei benefici ai clearing house mechanisms: verso modelli partecipativi di internazionalismo istituzionale per la protezione del patrimonio comune

Federica Mucci
2023-05-01

Abstract

Il patrimonio comune dell’umanità riguarda interessi condivisi dell’intera Comunità internazionale “cristallizzati” in specifici spazi, beni, risorse. In una prima fase, se ne è reclamata soprattutto la equa condivisione dei benefici, in particolare con riferimento a risorse esauribili o saturabili degli spazi internazionali. Non è anacronistico tornare a riferirsi oggi al discorso che l’ambasciatore Arvid Pardo ha tenuto all’Assemblea generale delle Nazioni Unite nel 1967, in cui per la prima volta si sosteneva il concetto che i fondali marini internazionali fossero “patrimonio comune dell’umanità” e dovevano perciò essere adeguatamente regolati nell’ordinamento internazionale. Nel tempo, infatti, la consapevolezza che la Comunità internazionale condivide un “patrimonio comune” non è certo scemata. Si sta sviluppando, operativamente strutturandosi in modi diversi a seconda delle caratteristiche di ciascuna delle “componenti” di tale patrimonio, sulla scorta dell’esperienza nel frattempo maturata, e progressivamente corrispondendo alle esigenze espresse dalla Comunità, attraverso i mezzi che essa è in grado di mettere in campo. Ed ogni nuovo elemento si inserisce in un quadro in continua evoluzione, che va continuamente reinterpretato e ricostruito nel suo complesso. Le sfide per le quali continua a reclamarsi l’applicazione del “principio”, focalizzandosi sulle nuove priorità, sempre più riguardano la condivisione di responsabilità, common concerns per la conservazione di “ricchezze” culturali e risorse naturali rinnovabili che devono essere trasmesse alle generazioni future, grazie ad una gestione adeguata. Già nella Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare conclusa a Montego Bay nel 1982 trovava evidentemente espressione la preoccupazione della protezione dell’ambiente marino, ma è cinquant’anni dopo lo storico discorso di Arvid Pardo che i negoziatori del progetto di trattato sulla conservazione e l’uso sostenibile della diversità biologica marina di aree al di là della giurisdizione nazionale (BBNJ) si sono trovati di nuovo a discutere sull’introduzione del “principio del patrimonio comune dell’umanità” in un trattato di diritto del mare da applicarsi all’Area internazionale dei fondali marini (e stavolta anche alla colonna d’acqua sovrastante), non solo per per mettere a punto un meccanismo volto a condividere tra tutti i benefici di una risorsa sfruttata da qualcuno, bensì innanzitutto per conservare una grande ricchezza condivisa: la diversità biologica marina. Convivono, dunque, nel progetto del nuovo trattato, l’esigenza solidaristica intragenerazionale della condivisione dei benefici e il common concern della sostenibilità intergenerazionale. Per quest’ultima in particolare, le soluzioni proposte fanno ampiamente “tesoro” di esperienze maturate in ambiti internazionali diversi, ma comparabili in quanto riguardanti common concerns, come quella della Convenzione UNESCO del 1972 sul patrimonio mondiale culturale e naturale e della Convenzione di Aarhus del 1998 sull’accesso alle informazioni, la partecipazione del pubblico ai processi decisionali e l’accesso alla giustizia in materia ambientale. Nonostante il regime del BBNJ sia destinato ad essere applicato esclusivamente in uno spazio internazionale, mentre la Convenzione del 1972 si applica nel territorio degli Stati, entrambi i trattati, infatti, basano la loro efficacia principalmente sulla responsabilizzazione di ciascuno Stato sotto il cui potere di governo si svolgono le attività regolamentate, affiancandolo attraverso meccanismi di condivisione internazionale delle scelte con un apposito organismo internazionale (il Comitato intergovernativo nella Convenzione del 1972, l’Organo tecnico-scientifico nel BBNJ), oltre che di assistenza internazionale in termini finanziari e di capacity building. La Convenzione di Aarhus, d’altra parte, è concepita per dare voce negli Stati alla “società civile”, e le procedure partecipative del BBNJ volte a garantire la migliore efficacia possibile degli standard di valutazione di impatto ambientale in esso stabiliti, a questa avanzata prospettiva di partecipazione di tutti gli stakeholders aggiungono – oltre alla soft law di un apposito organismo internazionale tecnico-scientifico, come si è appena ricordato – anche il ruolo partecipativo di tutti gli altri Stati contraenti. Questo meccanismo di strutturata partecipazione dialogica delle altre Parti del trattato richiama, invece, alla mente il regime di giurisdizione funzionale applicato alla ZEE e alla PC nella Convenzione UNESCO del 2001 sulla protezione del patrimonio culturale subacqueo – un altro common concern. Anche in tale trattato, infatti, è prevista in ogni specifico caso la cooperazione ad hoc degli Stati che esprimono un loro particolare interesse perché, attraverso un impegno collettivo, l’interesse comune possa essere meglio protetto. Il BBNJ non è ancora una fonte di diritto internazionale, ma il testo prodotto in esito ai lavori intergovernativi è già un risultato negoziale significativo, non solo nella sperabile prospettiva di una sua rapida conclusione, ampia ratifica ed entrata in vigore, ma anche per le caratteristiche dei modelli innovativi di cooperazione in esso delineati. Molto rivelano sull’interazione che si ritiene necessaria tra soggetti di base e soggetti funzionali della Comunità internazionale per l’adeguata protezione della diversità biologica marina quale patrimonio comune dell’umanità. Il coinvolgimento attivo dello Stato in procedure dialogiche in seno a organizzazioni internazionali per l’applicazione degli obblighi di protezione del patrimonio comune è particolarmente necessario per i beni presenti sotto la sovranità degli Stati (beni culturali e naturali), ma è importante anche negli spazi internazionali, perché l’efficacia della regolamentazione internazionale dipende in larga parte dall’effettivo controllo da parte di ciascuno Stato dell’operato dei propri mezzi (e a volte da parte dello Stato costiero in alcune sue zone di giurisdizione). Ebbene, la protezione della diversità biologica negli spazi marini al di là della giurisdizione degli Stati nel BBNJ è declinata, per la valutazione di impatto ambientale, attraverso procedure partecipative tra Stati, “società civile” e organi della Convenzione senza che questi ultimi assumano necessariamente un ruolo direttivo. Si fa, infatti, affidamento sull’effetto partecipativo che si presuppone scaturisca spontaneamente dalla messa in opera di un efficiente meccanismo di scambio di informazioni (clearing house mechanism). Questo aspetto “partecipativo” degli Stati e della società civile attraverso il clearing house mechanism nel BBNJ è particolarmente innovativo soprattutto per quanto riguarda i “capitoli” dell’applicazione della valutazione di impatto ambientale e dell’equa condivisione dei benefici tratti dalle risorse genetiche marine, mentre per favorire il capacity building tale tipo di soluzione è già praticato in altri trattati, soprattutto in materia ambientale. Come si è accennato, in particolare per la valutazione di impatto ambientale, l’apertura al contributo di tutti i soggetti e gli enti interessati in tutte le fasi della procedura – mutatis mutandis – si rapporta naturalmente alla ratio della Convenzione di Aarhus. Nella Convenzione di Aarhus si afferma che il testo è stato concordato “Recognizing (…) the importance of the respective roles that individual citizens, non-governmental organizations and the private sector can play in environmental protection”. Ebbene, in questo caso il BBNJ “orchestra”, con il monitoraggio di organi internazionali, oltre alla partecipazione dei soggetti privati e delle organizzazioni internazionali, anche la partecipazione degli altri Stati nell’adozione, da parte di uno di essi, delle decisioni di valutazione di impatto ambientale nelle aree marine internazionali. Tali decisioni, infatti, restano di competenza e responsabilità di ciascuno Stato per le attività da esso governate in mare internazionale e la corretta condivisione di tutte le informazioni attraverso il clearing house mechanism è la soluzione operativa scelta per fare in modo che tutti i soggetti – e gli altri attori coinvolti – possano offrire un loro apporto informativo o valutativo, ciascuno secondo il proprio ruolo, all’adozione di decisioni adeguate per la tutela del bene comune. Secondo questo modello di cooperazione non solo tutte le informazioni rilevanti possono essere condivise tempestivamente (questa è la “normale” funzione dei clearing house mechanisms), ma soprattutto gli Stati hanno modo di esprimersi e confrontarsi preventivamente sulle loro eventuali diverse posizioni in merito a come vada protetto adeguatamente, in ciascun caso concreto, il bene comune, avendo così occasione di elaborare la sintesi ottimale delle diverse posizioni – e dunque degli interessi individuali con gli interessi collettivi –, con l’autorevole supporto degli organi internazionali. Per i common concerns, in primis la protezione dell’ambiente naturale in tutti i suoi aspetti, procedure partecipative di questo tipo potrebbero sensibilmente far avanzare il livello di efficacia complessiva delle misure di protezione, anche attraverso la progressiva collettiva crescita di consapevolezza e impegno politico che potrebbero contribuire ad innescare, producendo così risultati anche oltre l’ambito di applicazione degli obblighi internazionalmente assunti. Naturalmente, i rischi che il meccanismo non produca davvero questi virtuosi risultati sono molteplici. Innanzitutto se non vengono condivise correttamente le informazioni attraverso il meccanismo di clearing house. Le direttive operative che andranno sviluppate a livello internazionale potranno disporre procedure utili a scongiurare tale rischio, dimostrando come, anche in questo caso, la “tensione” tra sovranità e bene comune non debba “significare contraddizione”. Il diritto del mare è, dunque, ancora una volta preziosa chiave di lettura dei processi evolutivi del diritto internazionale. Da un lato, infatti, per quanto riguarda l’argomento dell’equa condivisione dei benefici del patrimonio comune, la sofferta vicenda negoziale della delega all’Autorità internazionale dei fondali marini per la gestione a livello universale dell’accesso alle risorse esauribili dell’Area, nonché la prassi precedente all’entrata in vigore della Convenzione di Montego Bay del 1982, si rispecchiano negli attuali sviluppi della prassi in materia di diritto cosmico, dove pure sarebbe necessario dare mandato ad un’organizzazione internazionale per regolare l’accesso alle risorse. D’altro lato, il BBNJ, per la protezione della diversità biologica nelle aree marine al di là della giurisdizione degli Stati, appronta un meccanismo procedurale ampiamente partecipativo, in cui Stati, organizzazioni e “società civile” sono chiamati ad interagire e convergere su questioni sostanziali per garantire il risultato della protezione del common concern. Le nuove priorità ed impostazioni partecipative, dunque, si sommano – non si sostituiscono – all’approccio più risalente dell’internazionalismo istituzionale, tutt’oggi imprescindibile per regolare l’accesso a risorse esauribili (o saturabili) di spazi comuni. Quando l’internazionalismo istituzionale viene efficacemente declinato in modalità partecipative, si evidenziano le responsabilità degli Stati sovrani nella protezione e gestione razionale dei beni comuni, pur mantenendosi generalmente in capo alle organizzazioni internazionali ruoli di guida e supervisione. Per converso, però, anche in esito agli input pervenuti dai diversi soggetti che si sono espressi durante la procedura partecipativa, le indicazioni di comportamento rivolte agli Stati dall’organizzazione internazionale, pur non avendo forza vincolante, sono espressione di un organo internazionale che decide in autonomia, ma nel frattempo ha già ascoltato la posizione degli Stati e degli altri stakeholders che volevano prendere posizione in merito alla specifica questione, e da ciò traggono una maggiore forza, quale sintesi autorevole e necessaria in nome del bene comune. Attraverso il rapporto dialogico costruttivo tra soggetti ha modo di sciogliersi quella tensione tra sovranità e interesse comune che non dovrebbe mai sfociare in una contraddizione.
mag-2023
Settore IUS/13 - DIRITTO INTERNAZIONALE
Settore GIUR-09/A - Diritto internazionale
Italian
Rilevanza internazionale
Monografia
international protection of biodiversity; international law of the sea; common concerns; environmental impact assessment; clearing house mechanisms
protezione internazionale della diversità biologica; diritto internazionale del mare; patrimonio comune dell'umanità; valutazione di impatto ambientale; procedure partecipative
Mucci, F. (2023). Dall'equa condivisione dei benefici ai clearing house mechanisms: verso modelli partecipativi di internazionalismo istituzionale per la protezione del patrimonio comune. Editoriale Scientifica.
Monografia
Mucci, F
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