Nel 2015 il Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria del Ministero della Giustizia (DAP) e l’Unione delle Comunità e Organizzazioni Islamiche in Italia (UCOII), hanno sottoscritto un Protocollo d’intesa con l’obiettivo di garantire il diritto dei detenuti all’assistenza religiosa favorendo “l’accesso di mediatori culturali e di ministri di culto negli istituti penitenziari”.1 Tra queste guide religiose sono state incluse anche alcune donne. Si tratta di una sperimentazione innovativa, di cui in questa sede verranno esplorati alcuni aspetti legati ad implicazioni di natura sociale e religiosa che riguardano non soltanto la prevenzione del rischio di radicalizzazione islamica in carcere, ma anche il riconoscimento di ruoli religiosi femminili pubblici nell’Islam in Italia. Anche grazie ad interviste realizzate con alcune protagoniste di questo progetto e con alcuni esponenti dell’Islam italiano, viene qui messo in luce come, superando alcuni limiti, simili collaborazioni tra istituzioni penitenziarie e associazioni islamiche possano coniugare l’esigenza di sicurezza alla tutela dei diritti delle persone detenute. Nondimeno, al di fuori le mura del carcere, il riconoscimento dell’autorità religiosa femminile in ambito islamico è foriero di implicazioni significative che vanno dalla messa in discussione della tradizionale esclusione delle donne dai ruoli di ship religiosa alla critica verso lo stereotipo orientalista che considera le musulmane come vittime incapaci di agire autonomamente in società.
Borrillo, S. (2021). Predicatrici dell’Islam in carcere tra assistenza religiosa e decostruzione di stereotipi. In Michele Bernardini - Ersilia Francesca - Sara Borrillo - Nicola Di Mauro (a cura di), Jihadismo e Carcere in Italia. Analisi, strategie e pratiche alternative (pp. 197-213). Roma : Istituto per l'Oriente C.A. Nallino.
Predicatrici dell’Islam in carcere tra assistenza religiosa e decostruzione di stereotipi
Sara Borrillo
2021-01-01
Abstract
Nel 2015 il Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria del Ministero della Giustizia (DAP) e l’Unione delle Comunità e Organizzazioni Islamiche in Italia (UCOII), hanno sottoscritto un Protocollo d’intesa con l’obiettivo di garantire il diritto dei detenuti all’assistenza religiosa favorendo “l’accesso di mediatori culturali e di ministri di culto negli istituti penitenziari”.1 Tra queste guide religiose sono state incluse anche alcune donne. Si tratta di una sperimentazione innovativa, di cui in questa sede verranno esplorati alcuni aspetti legati ad implicazioni di natura sociale e religiosa che riguardano non soltanto la prevenzione del rischio di radicalizzazione islamica in carcere, ma anche il riconoscimento di ruoli religiosi femminili pubblici nell’Islam in Italia. Anche grazie ad interviste realizzate con alcune protagoniste di questo progetto e con alcuni esponenti dell’Islam italiano, viene qui messo in luce come, superando alcuni limiti, simili collaborazioni tra istituzioni penitenziarie e associazioni islamiche possano coniugare l’esigenza di sicurezza alla tutela dei diritti delle persone detenute. Nondimeno, al di fuori le mura del carcere, il riconoscimento dell’autorità religiosa femminile in ambito islamico è foriero di implicazioni significative che vanno dalla messa in discussione della tradizionale esclusione delle donne dai ruoli di ship religiosa alla critica verso lo stereotipo orientalista che considera le musulmane come vittime incapaci di agire autonomamente in società.File | Dimensione | Formato | |
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