Nel 1935, sulle pagine de “L’Ingegnere”, la rivista del sindacato nazionale fascista di categoria, Pietro Maria Bardi fornisce un orgoglioso resoconto del lavoro degli ingegneri italiani all’estero, per lui “una vera passione e oggetto di studio”. Al di là della retorica e dell’esaltazione dell’attività di singoli professionisti emigrati , dal racconto traspare, inesorabile, il quadro di una nazione che esporta prevalentemente manodopera a basso costo. Sono anni in cui negli Stati Uniti resiste ancora un modo di dire che qualifica “Tony the Italian” come il tuttofare cui affidare lavori edili in grande economia, che andranno inevitabilmente rifatti più accuratamente . Nel secondo dopoguerra, però, le occasioni all’estero, sia per gli ingegneri che per le imprese di costruzione aumentano. Gli anni dal boom fin quasi a Tangentopoli sono ricordati, generalmente, come quelli in cui gli italiani hanno costruito tantissimo, in tutto il mondo. Ma cosa hanno effettivamente realizzato, fuori dai confini nazionali? E dove? Quali sono i caratteri delle opere che hanno lasciato nel mondo? E, soprattutto, hanno davvero esportato quel modo di costruire strutture che rende l’ingegneria italiana così identitaria e le sue opere – quelle realizzate in patria – così peculiari? L’attività all’estero dei progettisti e delle grandi società di costruzione è stata esaminata con l’intento di rispondere a queste domande. Sull’argomento non esiste una fonte di dati sufficientemente affidabile, quindi il quadro che si restituisce non ha pretese di esaustività. Emergono però, piuttosto chiari, alcuni caratteri della disseminazione dell’ingegneria italiana all’estero.
Capurso, G., Martire, F. (2020). L'ingegneria made in Italy alla conquista del mondo?. In S.P. Tullia Iori (a cura di), SIXXI: storia dell'ingegneria strutturale in Italia. Vol. 5. Roma : Gangemi.
L'ingegneria made in Italy alla conquista del mondo?
Capurso Gianluca;
2020-01-01
Abstract
Nel 1935, sulle pagine de “L’Ingegnere”, la rivista del sindacato nazionale fascista di categoria, Pietro Maria Bardi fornisce un orgoglioso resoconto del lavoro degli ingegneri italiani all’estero, per lui “una vera passione e oggetto di studio”. Al di là della retorica e dell’esaltazione dell’attività di singoli professionisti emigrati , dal racconto traspare, inesorabile, il quadro di una nazione che esporta prevalentemente manodopera a basso costo. Sono anni in cui negli Stati Uniti resiste ancora un modo di dire che qualifica “Tony the Italian” come il tuttofare cui affidare lavori edili in grande economia, che andranno inevitabilmente rifatti più accuratamente . Nel secondo dopoguerra, però, le occasioni all’estero, sia per gli ingegneri che per le imprese di costruzione aumentano. Gli anni dal boom fin quasi a Tangentopoli sono ricordati, generalmente, come quelli in cui gli italiani hanno costruito tantissimo, in tutto il mondo. Ma cosa hanno effettivamente realizzato, fuori dai confini nazionali? E dove? Quali sono i caratteri delle opere che hanno lasciato nel mondo? E, soprattutto, hanno davvero esportato quel modo di costruire strutture che rende l’ingegneria italiana così identitaria e le sue opere – quelle realizzate in patria – così peculiari? L’attività all’estero dei progettisti e delle grandi società di costruzione è stata esaminata con l’intento di rispondere a queste domande. Sull’argomento non esiste una fonte di dati sufficientemente affidabile, quindi il quadro che si restituisce non ha pretese di esaustività. Emergono però, piuttosto chiari, alcuni caratteri della disseminazione dell’ingegneria italiana all’estero.File | Dimensione | Formato | |
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