Tra gli anni anni Dieci e gli anni Venti del ‘900 Russia e “testo russo” irrompono nei copioni e nelle sale cinematografiche italiane. In questo contesto e in questi stessi anni, a rivaleggiare con dive in carne ed ossa e personaggi di cellulosa, sale sulla ribalta la protagonista del cosiddetto “processo dei russi a Venezia”, la controversa ed affascinante Marija Tarnovskaja O’ Rourke (1877-1949). Le vicende della “Circe russa”, che colpiscono scrittori e artisti di più paesi e di diversi periodi, in Italia godono di una particolare fortuna. Il viaggio testuale della contessa inizia nella letteratura italiana all’indomani del processo e prosegue in più direzioni: dalla primissima biografia romanzata firmata da Annie Vivanti (Circe. Il romanzo di Maria Tarnowska, Milano: Quintieri, 1912) ai romanzi d’appendice, dalle raffinate pagine di La Leda senza cigno di G. D’Annunzio (1913), agli scanzonati ricordi di I. Montanelli (“Il mio primo amore fu per Maria Tarnowksa […] crebbi in una casa dove c’erano due enormi ritratti di lei, in costume da amazzone; e me la ricordo benissimo: aveva le mascelle quadre, le narici dilatate come froge da cavallo e un neo sul labbro”, La Tarnowska, 1939) sino alla demoniaca dark lady del romanzo fresco di stampa di E. Groppali (Il diavolo è femmina, Milano: Mondadori, 2010). Egualmente avventuroso è il viaggio sullo schermo: la Tarnovskaja, femme-vampire, col suo colletto alla “Lavallière”, lo “sguardo nudo” e l’esistenza da avventuriera, sembrava “essere uscita” da una telecamera. In questo contesto, negli anni di maggior fortuna del divismo italiano e del crescente interesse per il “testo russo”, la ricezione del mito della femme fatale nell’olimpo delle “sacerdotesse dell’amore e della morte” è quasi naturale: la prima cinematografica risale al 1917 (Circe, interpretato da D. Karenne), seguita dal film tratto dal dannunziano La Leda senza cigno (1918, interpretato da L. Gys) e da La piovra, sceneggiato da un russo, V. Brusilov (1919, protagonista F. Bertini). La fortuna dell’archetipo della “nobildonna e cortigiana russa” si spinge ben oltre: in tempi e contesti diversi, a vagheggiare lungamente un film sulla Tarnovskaja è Luchino Visconti, che sigla un copione a quattro mani con M. Antonioni, G. Piovene e A. Pietrangeli (Il processo di Maria Tarnowska, 1946), mentre negli anni Settanta, questa volta per il piccolo schermo, la Tarnovskaja entra nelle case degli italiani attraverso una miniserie prodotta dalla RAI per la regia di G. Fina (Il processo di Maria Tarnowska, 1977). Nell’articolo si evidenziano le fasi salienti e l’evoluzione del paradigma-Tarnovskaja in Italia, sullo sfondo della ricezione della cultura russa in quegli anni.
Sulpasso, B. (2014). Il processo di Marija Tarnovskaja. In N.M. M. Ciccarini (a cura di), Kesarevo Kesarju : Scritti in onore di Cesare G. De Michelis (pp. 431-448). ITA : -Firenze : Firenze University Press, 2008- -Tirrenia (Pisa): Edizioni Del Cerro 2006.
Il processo di Marija Tarnovskaja
Bianca Sulpasso
2014-01-01
Abstract
Tra gli anni anni Dieci e gli anni Venti del ‘900 Russia e “testo russo” irrompono nei copioni e nelle sale cinematografiche italiane. In questo contesto e in questi stessi anni, a rivaleggiare con dive in carne ed ossa e personaggi di cellulosa, sale sulla ribalta la protagonista del cosiddetto “processo dei russi a Venezia”, la controversa ed affascinante Marija Tarnovskaja O’ Rourke (1877-1949). Le vicende della “Circe russa”, che colpiscono scrittori e artisti di più paesi e di diversi periodi, in Italia godono di una particolare fortuna. Il viaggio testuale della contessa inizia nella letteratura italiana all’indomani del processo e prosegue in più direzioni: dalla primissima biografia romanzata firmata da Annie Vivanti (Circe. Il romanzo di Maria Tarnowska, Milano: Quintieri, 1912) ai romanzi d’appendice, dalle raffinate pagine di La Leda senza cigno di G. D’Annunzio (1913), agli scanzonati ricordi di I. Montanelli (“Il mio primo amore fu per Maria Tarnowksa […] crebbi in una casa dove c’erano due enormi ritratti di lei, in costume da amazzone; e me la ricordo benissimo: aveva le mascelle quadre, le narici dilatate come froge da cavallo e un neo sul labbro”, La Tarnowska, 1939) sino alla demoniaca dark lady del romanzo fresco di stampa di E. Groppali (Il diavolo è femmina, Milano: Mondadori, 2010). Egualmente avventuroso è il viaggio sullo schermo: la Tarnovskaja, femme-vampire, col suo colletto alla “Lavallière”, lo “sguardo nudo” e l’esistenza da avventuriera, sembrava “essere uscita” da una telecamera. In questo contesto, negli anni di maggior fortuna del divismo italiano e del crescente interesse per il “testo russo”, la ricezione del mito della femme fatale nell’olimpo delle “sacerdotesse dell’amore e della morte” è quasi naturale: la prima cinematografica risale al 1917 (Circe, interpretato da D. Karenne), seguita dal film tratto dal dannunziano La Leda senza cigno (1918, interpretato da L. Gys) e da La piovra, sceneggiato da un russo, V. Brusilov (1919, protagonista F. Bertini). La fortuna dell’archetipo della “nobildonna e cortigiana russa” si spinge ben oltre: in tempi e contesti diversi, a vagheggiare lungamente un film sulla Tarnovskaja è Luchino Visconti, che sigla un copione a quattro mani con M. Antonioni, G. Piovene e A. Pietrangeli (Il processo di Maria Tarnowska, 1946), mentre negli anni Settanta, questa volta per il piccolo schermo, la Tarnovskaja entra nelle case degli italiani attraverso una miniserie prodotta dalla RAI per la regia di G. Fina (Il processo di Maria Tarnowska, 1977). Nell’articolo si evidenziano le fasi salienti e l’evoluzione del paradigma-Tarnovskaja in Italia, sullo sfondo della ricezione della cultura russa in quegli anni.File | Dimensione | Formato | |
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