Gli studi sulla condizione delle schiave durante il periodo schiavista sono stati condizionati da un duplice pregiudizio, rivelatosi, alla luce dei lavori più recenti e approfonditi, infondato: da un lato il presupposto che il cosiddetto matriarcato africano avrebbe permesso alla donne nere di esercitare un certo potere nelle famiglie di schiavi tale da attenuare il dominio coloniale, da un altro l’idea, rivelatasi preconcetta e sessualmente orientata al dominio maschile, che fossero assenti ribellioni di schiave e forme di resistenza alla schiavitù a connotazione di genere nel movimento abolizionista sette-ottocentesco. Sebbene lo spazio domestico fornisse agli schiavi l’unico luogo di autonomia rispetto ai padroni, esso non rappresentò un momento di libertà e superiorità per le schiave rispetto agli uomini. Le donne nere, al contrario di una certa ricostruzione retorica che ha trasposto la figura materna della donna bianca sulla comunità nera (riconducibile alla tradizione letteraria che trova inizio con La capanna dello zio Tom di Harriet Beecher Stowe), non svolgevano solo funzioni domestiche ma le alternavano ai lavori nei campi, così come gli schiavi svolgevano importanti lavori presso le abitazioni. Le ricerche più recenti, muovendo da alcune pioneristiche intuizioni riconducibili agli studi degli anni Settanta negli Stati Uniti, hanno definitivamente smontato questo duplice pregiudizio: il matriarcato, al di là della sua reale incidenza, non ha intaccato il dominio razziale sulle donne e queste ultime sono state al centro di numerose forme di rivolta contro l’ordinamento segregazionista. La partecipazione delle schiave alle forme di resistenza alla schiavitù fu uguale se non superiore a quella degli schiavi. Oltre alle rivolte, tra le forme di resistenza esercitate da schiavi e, soprattutto, schiave – ma in certi casi anche dai neri di diversa condizione giuridica – si possono annoverare i suicidi, l’infanticidio (narrato in maniera straziante in Beloved di Toni Morrison), i sabotaggi, la partecipazione “minima” agli sforzi di produzione, il rifiuto di alimentarsi, le auto-mutilazioni, la provocazione di aborti, l’avvelenamento dei padroni o del loro bestiame, l’incendio dei campi di raccolta, ma anche forme meno cruente come i canti nei campi, le produzioni artistiche, le autobiografie, l’alfabetizzazione degli schiavi tenendo scuole di notte: tutto questo caratterizzò le resistenze delle donne alla schiavitù. Inoltre poiché agli occhi dei padroni una ribellione da parte di colei che nell’ideologia bianca e ottocentesca doveva essere relegata a mansuete funzioni di subordinazione era percepita come inammissibile, la repressione delle ribellioni delle donne fu più severa e crudele: oltre ad essere frustate e mutilate venivano anche stuprate. Lo stupro non va letto solo semplicisticamente come un modo di appagamento del desiderio sessuale negato ai padroni dalla pudicizia della donna bianca, ma proprio come «un’arma di dominio, un’arma di repressione, il cui fine nascosto era la distruzione della volontà di resistere delle schiave» (Angela Davis). Alle resistenze passive o violente verificatesi tra Sette e Ottocento si affiancò progressivamente la consapevolezza, elaborata da una élite di donne bianche illuminate e da una proto-borghesia nera, di poter ricorrere ad altri strumenti per perseguire l’emancipazione, come l’istituzione di società con lo scopo di sensibilizzare l’opinione pubblica, che andava maturando proprio in questi anni, sulla immoralità e sulle nefandezze del sistema servile. Dunque attraverso l’uso di testimonianze, memorialistica, atti giudiziari, opere giuridiche, oltre che testi letterari, si cercherà di dimostrare che, al contrario di ciò che la dottrina e l’ideologia dominante hanno tramandato in maniera interessata, le svariate forme di resistenza esercitate dalle donne – schiave o libere, bianche o nere – hanno comportato un paradosso nel sistema schiavista che, sfruttando le donne nella maniera più crudele, ha contribuito a gettare le fondamenta affinché queste, attraverso atti di resistenza, reclamassero l’eguaglianza dei diritti contribuendo alla nascita e all’affermazione del movimento abolizionista.

Fioravanti, M. (2020). All’origine del movimento abolizionista: il contributo delle donne all’emancipazione dalla schiavitù tra Sette e Ottocento. In A. Bassani, B. Del Bo (a cura di), Schiave e schiavi. Riflessioni storiche e giuridiche (pp. 219-232). Giuffrè.

All’origine del movimento abolizionista: il contributo delle donne all’emancipazione dalla schiavitù tra Sette e Ottocento

Fioravanti, M
2020-01-01

Abstract

Gli studi sulla condizione delle schiave durante il periodo schiavista sono stati condizionati da un duplice pregiudizio, rivelatosi, alla luce dei lavori più recenti e approfonditi, infondato: da un lato il presupposto che il cosiddetto matriarcato africano avrebbe permesso alla donne nere di esercitare un certo potere nelle famiglie di schiavi tale da attenuare il dominio coloniale, da un altro l’idea, rivelatasi preconcetta e sessualmente orientata al dominio maschile, che fossero assenti ribellioni di schiave e forme di resistenza alla schiavitù a connotazione di genere nel movimento abolizionista sette-ottocentesco. Sebbene lo spazio domestico fornisse agli schiavi l’unico luogo di autonomia rispetto ai padroni, esso non rappresentò un momento di libertà e superiorità per le schiave rispetto agli uomini. Le donne nere, al contrario di una certa ricostruzione retorica che ha trasposto la figura materna della donna bianca sulla comunità nera (riconducibile alla tradizione letteraria che trova inizio con La capanna dello zio Tom di Harriet Beecher Stowe), non svolgevano solo funzioni domestiche ma le alternavano ai lavori nei campi, così come gli schiavi svolgevano importanti lavori presso le abitazioni. Le ricerche più recenti, muovendo da alcune pioneristiche intuizioni riconducibili agli studi degli anni Settanta negli Stati Uniti, hanno definitivamente smontato questo duplice pregiudizio: il matriarcato, al di là della sua reale incidenza, non ha intaccato il dominio razziale sulle donne e queste ultime sono state al centro di numerose forme di rivolta contro l’ordinamento segregazionista. La partecipazione delle schiave alle forme di resistenza alla schiavitù fu uguale se non superiore a quella degli schiavi. Oltre alle rivolte, tra le forme di resistenza esercitate da schiavi e, soprattutto, schiave – ma in certi casi anche dai neri di diversa condizione giuridica – si possono annoverare i suicidi, l’infanticidio (narrato in maniera straziante in Beloved di Toni Morrison), i sabotaggi, la partecipazione “minima” agli sforzi di produzione, il rifiuto di alimentarsi, le auto-mutilazioni, la provocazione di aborti, l’avvelenamento dei padroni o del loro bestiame, l’incendio dei campi di raccolta, ma anche forme meno cruente come i canti nei campi, le produzioni artistiche, le autobiografie, l’alfabetizzazione degli schiavi tenendo scuole di notte: tutto questo caratterizzò le resistenze delle donne alla schiavitù. Inoltre poiché agli occhi dei padroni una ribellione da parte di colei che nell’ideologia bianca e ottocentesca doveva essere relegata a mansuete funzioni di subordinazione era percepita come inammissibile, la repressione delle ribellioni delle donne fu più severa e crudele: oltre ad essere frustate e mutilate venivano anche stuprate. Lo stupro non va letto solo semplicisticamente come un modo di appagamento del desiderio sessuale negato ai padroni dalla pudicizia della donna bianca, ma proprio come «un’arma di dominio, un’arma di repressione, il cui fine nascosto era la distruzione della volontà di resistere delle schiave» (Angela Davis). Alle resistenze passive o violente verificatesi tra Sette e Ottocento si affiancò progressivamente la consapevolezza, elaborata da una élite di donne bianche illuminate e da una proto-borghesia nera, di poter ricorrere ad altri strumenti per perseguire l’emancipazione, come l’istituzione di società con lo scopo di sensibilizzare l’opinione pubblica, che andava maturando proprio in questi anni, sulla immoralità e sulle nefandezze del sistema servile. Dunque attraverso l’uso di testimonianze, memorialistica, atti giudiziari, opere giuridiche, oltre che testi letterari, si cercherà di dimostrare che, al contrario di ciò che la dottrina e l’ideologia dominante hanno tramandato in maniera interessata, le svariate forme di resistenza esercitate dalle donne – schiave o libere, bianche o nere – hanno comportato un paradosso nel sistema schiavista che, sfruttando le donne nella maniera più crudele, ha contribuito a gettare le fondamenta affinché queste, attraverso atti di resistenza, reclamassero l’eguaglianza dei diritti contribuendo alla nascita e all’affermazione del movimento abolizionista.
2020
Settore IUS/19 - STORIA DEL DIRITTO MEDIEVALE E MODERNO
Italian
Rilevanza internazionale
Articolo scientifico in atti di convegno
Fioravanti, M. (2020). All’origine del movimento abolizionista: il contributo delle donne all’emancipazione dalla schiavitù tra Sette e Ottocento. In A. Bassani, B. Del Bo (a cura di), Schiave e schiavi. Riflessioni storiche e giuridiche (pp. 219-232). Giuffrè.
Fioravanti, M
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Utilizza questo identificativo per citare o creare un link a questo documento: https://hdl.handle.net/2108/255034
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