Outsourcing has become a widespread organizational model, focusing on phases, each assigned to a different company. This outsourcing allows companies to focus on their core business while entrusting incidental or marginal activities to other firms, obtaining - at least in perspective - an improvement of efficiency and a reduction of costs. This should be the physiological aim of that industrial and social phenomenon, which causes the that company, seeking more and more flexibility in a more competitive market, breaking the cage of sometimes excessive rules, may form a network, which can also become a labyrinth of functionally coordinated companies. But conversely this goal â that is often a necessity - to move with more fluency and dynamism in the market, can be distorted by the more or less hidden aim to reduce personnel, outside the rules of mobility or collective redundancies. The most practical way to achieve that objective, legitimate, but sometimes surreptitious, is the use of transfer business. Legislation recently has been moving in that direction, but the law in action, namely the prevailing interpretation of the overall standards which are given by judges and doctors, is affected by opposing forces and counter which we have referred. The balance between the conflicting demands and drives lies in a definition of "business unit" as objective as possible, as "articulation functionally independentâ . The spoken phenomenon can, in the context of simple and clear rules on employment protection, allow companies the flexibility and ability to ready adaptation to new technologies and new demands, which may be a harbinger of that awaited industrial development, so necessary for the economic recovery of our country, within the framework of a united Europe promoting work and well-being. Now, to address the issue of outsourcing means moving into the widest problem of reform of the labour market, with which, for over a decade, the countries of the European community had to cope. Given the fact of the radical change in the economic world and, consequently, in the world of work, characterized by an increasing reduction in the work as a result of technological innovation, leading to replacement by accelerating rate workers with machines and robots, would be totally illusory to think that labour law could remain stable and unchanging. Labour law, in fact, because of its adherence to social reality, needs change, to adapt to reality and to construct new categories and institutions when reality develops. At the informal meeting of the European Council held in 2006, October 27, at Hampton Court on British Prime Minister Tony Blair supported the need to modernize the European social model. This necessity is imposed by the need to address the challenges of globalization but also the harsh reality of unemployment is too high. All EU countries must therefore deal, albeit in different measure, with the problem of modernization, and this theme - as has been observed - plays on the blurred line between market expansion and preservation of social protection, which are the heart of the social model, especially in countries such as Germany and Italy. Italy seems to have moved on this perspective, with a legislative process of acknowledgment flexible forms of work, already started in the '90s with the so-called â Treu packageâ , resulted in the labour market reform introduced in the implementation of delegation Law No 30/2003, by Decree No 276, 2003 and known as "Biagi reform" The reform, as is known, has set as its main objective is to provide the labour market with the highest levels of flexibility, but without ignoring the need, reiterated the White Paper, that the introduction of massive doses of flexibility should not be restricting the protections and the protections, but moving them from job guarantee to full employability throughout their working lives. This objective was pursued, establishing new contractual arrangements, different from the model built on Article 2094 c.c. and restyling existing institutions in a bid to boost employment by creating new legislative processes, more appropriate to the transforming world of work.

L’esternalizzazione è ormai un modello organizzativo molto diffuso, incentrato su fasi, ciascuna affidata ad una diversa impresa. Cio’ consente alle imprese esternalizzanti di concentrarsi meglio sul proprio core business, affidando attività accessorie o marginali ad altre imprese specializzate, con - almeno in prospettiva - un miglioramento di efficienza ed una riduzione di costi. Questo dovrebbe essere lo scopo fisiologico di quell'ormai affermato fenomeno industriale e sociale, che fa sì che l'impresa alla ricerca di una sempre maggiore flessibilità in un mercato tanto più competitivo quanto più globalizzato, rompendo le sbarre della gabbia di regole e di garantismi talora eccessivi, possa dar vita ad una rete, che può peraltro diventare un labirinto di imprese funzionalmente coordinate. Ma, per converso questa aspirazione - che è spesso una vera necessità – a muoversi con più scioltezza e dinamismo sul mercato, può venir distorta al più o meno recondito fine di alleggerimento di personale, fuori dalle maglie strette di mobilità o di licenziamenti collettivi. Il mezzo più praticato per raggiungere tali scopi, leciti, ma talora surrettizi, è il ricorso al trasferimento d’azienda. La legislazione recente si è mossa in questa direzione, ma il diritto vivente, vale a dire la prevalente interpretazione che della complessiva normazione viene offerta da giudici e dottori, risente delle opposte spinte e controspinte cui si è fatto cenno. Il punto di equilibrio fra le opposte istanze e pulsioni risiede in una definizione di "ramo di azienda", il più possibile oggettiva, come "articolazione funzionalmente autonoma". Ma, quanto più tale autonomia funzionale - come tale identificabile dal cedente e dal cessionario al momento del trasferimento (secondo l'ultima versione del testo dell'art. 2112, comma 5, c.c., come introdotta dall'art. 32 della c.d. legge Biagi, il D.Lgs. 10 settembre 2003, n. 276) - si attenui o sia equivalente tanto più si aggrava il rischio della creazione di articolazioni fittizie: ciò soprattutto dopo la soppressione del requisito della "preesistenza” del ramo trasferito, operata dal cit. art. 32. L’orientamento dell’interprete sulla qualificazione del trasferimento di azienda o di un suo ramo, dovrebbe comunque consistere da un lato nell'evitare la vanificazione della tutela dei lavoratori in ordine alla continuità del rapporto, e dall'altro nel non togliere all'imprenditore la libertà di articolare la sua azienda nella maniera più consona ad una sana concorrenzialità, senza stravolgere la originaria – ma tuttora persistente – ratio protettiva dell'art. 2112 nelle sue diacroniche versioni, e senza dunque avallare operazioni di esternalizzazione miranti solo ad espellere personale, con impropria applicazione dell'automatismo contenuto in detta norma. Il fenomeno oggi dibattuto può, nel quadro di semplici e chiare regole a tutela del lavoro, consentire alle imprese quella flessibilità e capacità di pronto adeguamento a nuove tecnologie e nuove esigenze, che potrà essere foriera di quello sviluppo industriale tanto necessario alla sospirata e non facile ripresa economica del nostro Paese, nella cornice di un'Europa unita e promotrice di lavoro e di benessere. Ora affrontare il tema delle esternalizzazioni significa addentrarsi nella più vasta problematica della riforma del mercato del lavoro, con cui da oltre un decennio i vari paesi della comunità europea, chi più chi meno, hanno dovuto misurarsi. Come è noto, il mercato globalizzazione del lavoro negli ultimi decenni ha subito, in tutto il mondo, una trasformazione storica, epocale, nel passaggio dalla società industriale alla società postindustriale. Trasformazione, indotta dall'evoluzione dei processi di innovazione tecnologica e dalla progressiva globalizzazione dei mercati. A fronte dell'incontestabile dato di fatto del radicale cambiamento del mondo economico e, di riflesso, del mondo del lavoro, caratterizzato da una crescente riduzione degli occupati in conseguenza dell'innovazione tecnologica, che porta a sostituire con ritmo sempre crescente i lavoratori con le macchine e con i robots, sarebbe del tutto illusorio pensare che il diritto del lavoro possa rimanere stabile ed immutabile. Il diritto del lavoro, infatti, proprio per la sua aderenza alla realtà sociale, ha bisogno di trasformazioni e di mutamenti, di adattamenti alla realtà e di costruzione di nuove categorie e istituti quando la realtà si trasforma . Nella riunione informale del Consiglio Europeo tenutasi il 27 ottobre 2006 ad Hampton Court il primo Ministro inglese Tony Blair (in sedédone del rapporto dal quale emerge, tra l'altro, come l'Europa continui a perdere quote di mercato mondiale, al contrario di paesi extraeuropei come Cina e India) ha sostenuto la necessità di modernizzare il modello sociale europeo. Tale necessità è imposta dall'esigenza di affrontare le sfide della globalizzazione ma anche dalla dura realtà di un tasso dì disoccupazione troppo elevato. Tutti i paesi dell'Unione Europea debbono, dunque, fare i conti, sia pure in misura differenziata, con il problema della modernizzazione, e questo tema –come è stato osservato – si gioca sulla labile linea di confine tra espansione del dominio del mercato e conservazione delle forme di protezione sociale, che rappresentano il cuore del modello sociale, specie in paesi quali la Germania e l'Italia. L'Italia da qualche anno-sembra essersi mossa su tale linea prospettica con un processo di riconoscimento legislativo delle forme di lavoro flessibile che, iniziato gia negli anni '90 con il c.d. pacchetto Treu, è sfociato nella riforma del mercato del lavoro introdotta, in attuazione della legge delega n. 30/2003, dal D.Lgs: n. 276 del 2003 e meglio conosciuta come "riforma Biagi" La riforma, come è noto, si è prefissa come principale obiettivo quello di dotare il mercato del lavoro di maggiori livelli dì flessibilità, senza tuttavia ignorare l'esigenza, ribadita dal Libro Bianco, secondo cui l'introduzione di massicce dosi di flessibilità non dovrà avvenire restringendo le tutele e le protezioni bensì spostandole dalla garanzia del posto di lavoro all'assicurazione di una piena occupabilità durante tutta la vita lavorativa. Tale obiettivo è stato perseguito procedendosi alla definizione di nuove tipologie contrattuali diverse dal modello costruito sull'art. 2094 c.c. ed ad un consistente restilyng di istituti esistenti nel tentativo di favorire l'occupazione, con la creazione di nuovi moduli normativi più consoni ai processi di trasformazione del mondo del lavoro. Maggiore flessibilità significa, fra l'altro, migliore possibilità per l'impresa di adeguare la propria organizzazione aziendale ed il proprio fabbisogno di manodopera, modellandolo alle specifiche esigenze produttive, ma significa anche incentivare l'emersione di una domanda di lavoro sufficiente ad assorbire sia le forze lavoro in uscita dai settori produttivi attanagliati dalla crisi, sia le nuove forze di lavoro che entrano sul mercato. In questo contesto, in cui le imprese sono spesso costrette, per sopravvivere e rimanere competitive sul mercato, ad andare incontro a modificazioni strutturali volte a conseguire risparmi ed ottimizzazioni organizzative, acquista indubbiamente un rilievo centrale il fenomeno del trasferimento di azienda: materia che in questi ultimi anni ha costituito uno dei temi sicuramente più tormentati del diritto del lavoro.

Molisso, L. (2010). I processi di esternalizzazione e di delocalizzazione.

I processi di esternalizzazione e di delocalizzazione

MOLISSO, LIDIA
2010-07-14

Abstract

Outsourcing has become a widespread organizational model, focusing on phases, each assigned to a different company. This outsourcing allows companies to focus on their core business while entrusting incidental or marginal activities to other firms, obtaining - at least in perspective - an improvement of efficiency and a reduction of costs. This should be the physiological aim of that industrial and social phenomenon, which causes the that company, seeking more and more flexibility in a more competitive market, breaking the cage of sometimes excessive rules, may form a network, which can also become a labyrinth of functionally coordinated companies. But conversely this goal â that is often a necessity - to move with more fluency and dynamism in the market, can be distorted by the more or less hidden aim to reduce personnel, outside the rules of mobility or collective redundancies. The most practical way to achieve that objective, legitimate, but sometimes surreptitious, is the use of transfer business. Legislation recently has been moving in that direction, but the law in action, namely the prevailing interpretation of the overall standards which are given by judges and doctors, is affected by opposing forces and counter which we have referred. The balance between the conflicting demands and drives lies in a definition of "business unit" as objective as possible, as "articulation functionally independentâ . The spoken phenomenon can, in the context of simple and clear rules on employment protection, allow companies the flexibility and ability to ready adaptation to new technologies and new demands, which may be a harbinger of that awaited industrial development, so necessary for the economic recovery of our country, within the framework of a united Europe promoting work and well-being. Now, to address the issue of outsourcing means moving into the widest problem of reform of the labour market, with which, for over a decade, the countries of the European community had to cope. Given the fact of the radical change in the economic world and, consequently, in the world of work, characterized by an increasing reduction in the work as a result of technological innovation, leading to replacement by accelerating rate workers with machines and robots, would be totally illusory to think that labour law could remain stable and unchanging. Labour law, in fact, because of its adherence to social reality, needs change, to adapt to reality and to construct new categories and institutions when reality develops. At the informal meeting of the European Council held in 2006, October 27, at Hampton Court on British Prime Minister Tony Blair supported the need to modernize the European social model. This necessity is imposed by the need to address the challenges of globalization but also the harsh reality of unemployment is too high. All EU countries must therefore deal, albeit in different measure, with the problem of modernization, and this theme - as has been observed - plays on the blurred line between market expansion and preservation of social protection, which are the heart of the social model, especially in countries such as Germany and Italy. Italy seems to have moved on this perspective, with a legislative process of acknowledgment flexible forms of work, already started in the '90s with the so-called â Treu packageâ , resulted in the labour market reform introduced in the implementation of delegation Law No 30/2003, by Decree No 276, 2003 and known as "Biagi reform" The reform, as is known, has set as its main objective is to provide the labour market with the highest levels of flexibility, but without ignoring the need, reiterated the White Paper, that the introduction of massive doses of flexibility should not be restricting the protections and the protections, but moving them from job guarantee to full employability throughout their working lives. This objective was pursued, establishing new contractual arrangements, different from the model built on Article 2094 c.c. and restyling existing institutions in a bid to boost employment by creating new legislative processes, more appropriate to the transforming world of work.
14-lug-2010
A.A. 2009/2010
Diritto del lavoro, sindacale e della previdenza sociale
22.
L’esternalizzazione è ormai un modello organizzativo molto diffuso, incentrato su fasi, ciascuna affidata ad una diversa impresa. Cio’ consente alle imprese esternalizzanti di concentrarsi meglio sul proprio core business, affidando attività accessorie o marginali ad altre imprese specializzate, con - almeno in prospettiva - un miglioramento di efficienza ed una riduzione di costi. Questo dovrebbe essere lo scopo fisiologico di quell'ormai affermato fenomeno industriale e sociale, che fa sì che l'impresa alla ricerca di una sempre maggiore flessibilità in un mercato tanto più competitivo quanto più globalizzato, rompendo le sbarre della gabbia di regole e di garantismi talora eccessivi, possa dar vita ad una rete, che può peraltro diventare un labirinto di imprese funzionalmente coordinate. Ma, per converso questa aspirazione - che è spesso una vera necessità – a muoversi con più scioltezza e dinamismo sul mercato, può venir distorta al più o meno recondito fine di alleggerimento di personale, fuori dalle maglie strette di mobilità o di licenziamenti collettivi. Il mezzo più praticato per raggiungere tali scopi, leciti, ma talora surrettizi, è il ricorso al trasferimento d’azienda. La legislazione recente si è mossa in questa direzione, ma il diritto vivente, vale a dire la prevalente interpretazione che della complessiva normazione viene offerta da giudici e dottori, risente delle opposte spinte e controspinte cui si è fatto cenno. Il punto di equilibrio fra le opposte istanze e pulsioni risiede in una definizione di "ramo di azienda", il più possibile oggettiva, come "articolazione funzionalmente autonoma". Ma, quanto più tale autonomia funzionale - come tale identificabile dal cedente e dal cessionario al momento del trasferimento (secondo l'ultima versione del testo dell'art. 2112, comma 5, c.c., come introdotta dall'art. 32 della c.d. legge Biagi, il D.Lgs. 10 settembre 2003, n. 276) - si attenui o sia equivalente tanto più si aggrava il rischio della creazione di articolazioni fittizie: ciò soprattutto dopo la soppressione del requisito della "preesistenza” del ramo trasferito, operata dal cit. art. 32. L’orientamento dell’interprete sulla qualificazione del trasferimento di azienda o di un suo ramo, dovrebbe comunque consistere da un lato nell'evitare la vanificazione della tutela dei lavoratori in ordine alla continuità del rapporto, e dall'altro nel non togliere all'imprenditore la libertà di articolare la sua azienda nella maniera più consona ad una sana concorrenzialità, senza stravolgere la originaria – ma tuttora persistente – ratio protettiva dell'art. 2112 nelle sue diacroniche versioni, e senza dunque avallare operazioni di esternalizzazione miranti solo ad espellere personale, con impropria applicazione dell'automatismo contenuto in detta norma. Il fenomeno oggi dibattuto può, nel quadro di semplici e chiare regole a tutela del lavoro, consentire alle imprese quella flessibilità e capacità di pronto adeguamento a nuove tecnologie e nuove esigenze, che potrà essere foriera di quello sviluppo industriale tanto necessario alla sospirata e non facile ripresa economica del nostro Paese, nella cornice di un'Europa unita e promotrice di lavoro e di benessere. Ora affrontare il tema delle esternalizzazioni significa addentrarsi nella più vasta problematica della riforma del mercato del lavoro, con cui da oltre un decennio i vari paesi della comunità europea, chi più chi meno, hanno dovuto misurarsi. Come è noto, il mercato globalizzazione del lavoro negli ultimi decenni ha subito, in tutto il mondo, una trasformazione storica, epocale, nel passaggio dalla società industriale alla società postindustriale. Trasformazione, indotta dall'evoluzione dei processi di innovazione tecnologica e dalla progressiva globalizzazione dei mercati. A fronte dell'incontestabile dato di fatto del radicale cambiamento del mondo economico e, di riflesso, del mondo del lavoro, caratterizzato da una crescente riduzione degli occupati in conseguenza dell'innovazione tecnologica, che porta a sostituire con ritmo sempre crescente i lavoratori con le macchine e con i robots, sarebbe del tutto illusorio pensare che il diritto del lavoro possa rimanere stabile ed immutabile. Il diritto del lavoro, infatti, proprio per la sua aderenza alla realtà sociale, ha bisogno di trasformazioni e di mutamenti, di adattamenti alla realtà e di costruzione di nuove categorie e istituti quando la realtà si trasforma . Nella riunione informale del Consiglio Europeo tenutasi il 27 ottobre 2006 ad Hampton Court il primo Ministro inglese Tony Blair (in sedédone del rapporto dal quale emerge, tra l'altro, come l'Europa continui a perdere quote di mercato mondiale, al contrario di paesi extraeuropei come Cina e India) ha sostenuto la necessità di modernizzare il modello sociale europeo. Tale necessità è imposta dall'esigenza di affrontare le sfide della globalizzazione ma anche dalla dura realtà di un tasso dì disoccupazione troppo elevato. Tutti i paesi dell'Unione Europea debbono, dunque, fare i conti, sia pure in misura differenziata, con il problema della modernizzazione, e questo tema –come è stato osservato – si gioca sulla labile linea di confine tra espansione del dominio del mercato e conservazione delle forme di protezione sociale, che rappresentano il cuore del modello sociale, specie in paesi quali la Germania e l'Italia. L'Italia da qualche anno-sembra essersi mossa su tale linea prospettica con un processo di riconoscimento legislativo delle forme di lavoro flessibile che, iniziato gia negli anni '90 con il c.d. pacchetto Treu, è sfociato nella riforma del mercato del lavoro introdotta, in attuazione della legge delega n. 30/2003, dal D.Lgs: n. 276 del 2003 e meglio conosciuta come "riforma Biagi" La riforma, come è noto, si è prefissa come principale obiettivo quello di dotare il mercato del lavoro di maggiori livelli dì flessibilità, senza tuttavia ignorare l'esigenza, ribadita dal Libro Bianco, secondo cui l'introduzione di massicce dosi di flessibilità non dovrà avvenire restringendo le tutele e le protezioni bensì spostandole dalla garanzia del posto di lavoro all'assicurazione di una piena occupabilità durante tutta la vita lavorativa. Tale obiettivo è stato perseguito procedendosi alla definizione di nuove tipologie contrattuali diverse dal modello costruito sull'art. 2094 c.c. ed ad un consistente restilyng di istituti esistenti nel tentativo di favorire l'occupazione, con la creazione di nuovi moduli normativi più consoni ai processi di trasformazione del mondo del lavoro. Maggiore flessibilità significa, fra l'altro, migliore possibilità per l'impresa di adeguare la propria organizzazione aziendale ed il proprio fabbisogno di manodopera, modellandolo alle specifiche esigenze produttive, ma significa anche incentivare l'emersione di una domanda di lavoro sufficiente ad assorbire sia le forze lavoro in uscita dai settori produttivi attanagliati dalla crisi, sia le nuove forze di lavoro che entrano sul mercato. In questo contesto, in cui le imprese sono spesso costrette, per sopravvivere e rimanere competitive sul mercato, ad andare incontro a modificazioni strutturali volte a conseguire risparmi ed ottimizzazioni organizzative, acquista indubbiamente un rilievo centrale il fenomeno del trasferimento di azienda: materia che in questi ultimi anni ha costituito uno dei temi sicuramente più tormentati del diritto del lavoro.
esternalizzazione; distacco; internalizzazione; globalizzazione; transnazionale; ramo d'azienda
Settore IUS/07 - DIRITTO DEL LAVORO
Italian
Tesi di dottorato
Molisso, L. (2010). I processi di esternalizzazione e di delocalizzazione.
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