L’oggetto di questo lavoro è l’incidenza di eventi sopravvenuti stranei alle parti, anomalie non imputabili che modificano le circostanze iniziali del contratto producendo uno squilibrio sopravvenuto tra le prestazioni; si parla oggi di ‘rischio della realtà’ e di ‘compatibilità’ tra sopravvenienze e adempimento contrattuale, tradizionalmente si parla di ‘rischio contrattuale’, tuttavia, non è soltanto un problema di distribuzione del rischio per sopravvenienze, è il problema degli strumenti per andare oltre, per superare la contingenza, adattare il contratto alla nuova realtà, conservarlo e garantire l’adempimento equitativo delle obbligazioni. Una simile idea di giustizia non è nuova, ella è stata sempre presente nei principi e nell’elaborazione dogmatica del sistema giuridico romanistico. Infatti, la ‘reductio ad aequitatem’ per squilibrio sopravvenuto (laesio superveniens) fu una pratica diffusa nel medioevo, la dottrina medioevale segnalò la necessità di moderare i contratti di durata affetti da squilibrio sopravvenuto, appunto come diceva il Mantica: Sed adverte, quod contractus non continet enormem laesionem ab initio sed ex post facto, propter mutationem temporum, debet moderari, si contractus habeat tractum successivum et futurum tempus recipiat. Tuttavia, questa tradizione entrò in crisi nel XIX secolo col dogma della volontà, per poscia rifiorire con l’inversione di tendenza nel XX secolo che dal paradigma dell'assolutezza dei contratti aprì le porte ad un nuovo paradigma, quello delle esigenze della buona fede, della collaborazione e la solidarietà, dell’equità, in fine, della giustizia contrattuale. Il paradigma della ‘relatività del vincolo obbligatorio’ ed il suo necessario adattamento. Nel Diritto Romano, la distruzione o lo smarrimento della cosa oggetto del rapporto contrattuale che non implica un intercambio definitivo, quando non sia imputabile all’opera o la volontà dell’uomo, corrisponde necessariamente al ‘dominus’, non in quanto moralmente equitativo, ma piuttosto in quanto coerente con un ordine naturale delle cose che l’equità impone. La ‘ratio’ che si trova alla base della regola ‘damnum domini’ e dell’attribuzione del ‘praestare’ al ‘dominus’, radica nell’accentuare del rapporto di ‘dominium’ che vincola al contrattante con la ‘res’, ed è la valutazione del ‘oportere’ in termini di ‘fides bona’ che in questi casi viene a impedire, da una parte, che al contrattante non-dominus siano allocati taluni rischi, e dall’altra, a permettere che di loro si faccia carico il ‘dominus’. Con Labeone il ‘praestare’ non fu più l’unico fondamento dell’azione in caso di sopravvenienze, di eventi sopravvenuti ed irresistibili. Labeone modificò profondamente il criterio serviano poiché si superò la ragione d’essere del contenuto del ‘praestare’ come unica condizione di soggezione al ‘actione teneri’, cioè, che i danni per inadempimento possono essere imputati ad una delle parti non soltanto come conseguenza del ‘praestare’, ma anche dell’avvenire di circostanze non imputabili a titolo di responsabilità; si distingueva così chiaramente il ‘dolum-culpam praestare’, del ‘periculum’, senza che ciò abbia rappresentato una concezione unitaria del problema. Labeone propose un modello complesso ed articolato che superò l’ambito tradizionale attribuendo rischi a taluni debitori non-dominus, in attenzione all’interpretazione tipica dell’attività che le parti si prospettavano di realizzare col contratto, così come le modalità e gli interessi impliciti nell’operazione economica. Si tratta della valutazione del ‘oportere’ alla luce della ‘fides bona’, e dall’altra parte, del dualismo ‘bona fides-aequitas’ all’interno del dibattito giurisprudenziale sull’efficacia giustificante dell’evento irresistibile definito come ‘vis maior’. Sebbene nel Diritto Romano sia piuttosto complesso individuare un processo di costruzione dogmatica unitario in materia di ‘periculum’, in ogni caso è possibile individuare sì una ‘ratio’ comune: la necessità di garantire la correlazione tra l’impegno patrimoniale di ciascuna delle parti e l’esito positivo delle sue aspettative, ciò implica una tutela oggettiva in caso di non realizzarsi la causa synallagmatica persino là ove non c’è responsabilità del debitore della prestazione, conforme ai criteri tipici e riguardo ogni singola obbligazione. Il sistema medievale mitigò il rigore dello ‘strictum ius’ sopprimendo la distinzione tra contratti di diritto stretto e contratti di buona fede; la giustificazione di questa operazione interpretativa trova la sua base nell’emblematica nozione d’equità dei ‘doctores’ medioevali (Baldo: Ego puto, quod de aequitate canonica omnes contractus mundi sunt bonae fidei, non quantum ad titulum actionis, sed quo ad mentem et substantiam intentionis), un’equità diversa della romana sì, ma che comunque in ‘omnes contractus servanda’ per correggere ogni ‘maxima iniquitas’ (Nider: Cum tam secundum Theologos quam per Philosophos in omni contractu aequalitas debeat servari). Che nel sistema circolava già una forza nuova, l’equità, e che la dottrina ne era consapevole, lo attestano le fonti. Ma in verità, la questione dell’equità –così come la buona fede- ha una portata ancor maggiore e radici ancor più profonde (si pensi soltanto alla definizione dello ‘ius’ come arte del ‘buono et aequo’), fin che il problema no si affrontò dalla prospettiva della sola tecnica ermeneutica, fu rimasto sempre un enigma, o fu ridotto a mero canone d’interpretazione, fin che ebbe di manifestarsi come correttivo benevolo del ‘rigor iuris’. Il sistema della Scuola medioevale ebbe un ruolo fondamentale, così come per la ‘laesio enormis’ i medioevali attinsero ad un’interpretazione contestuale che aprì le porte alla generalizzazione, così ugualmente si fece con la clausola ‘rebus sic stantibus’, rivelandosi in questo modo i due istituti cardinali dell’elaborazione della dottrina medioevale. In questo senso, se si pensa alla distinzione attribuita a Bartolo tra ‘contractus qui unico momento perficitur’ e ‘contractus quia habent tractum successivum’, si osserva che se il momento della celebrazione del contratto coincide con la sua esecuzione, è sufficiente che l’equilibrio tra le prestazioni rimanga in tale momento iniziale, in caso contrario, il vincolo si può modificare o rescindere per ‘laesio enormis’; ma se l’esecuzione del contratto è differita, l’equilibrio tra le prestazioni deve rimanere nel trascorso della sua esecuzione, in caso contrario, il contratto si può modificare o risolversi per ‘laesio superveniens’ in applicazione della c. d. clausola ‘rebus sic stantibus’. La ‘moderazione’ dei contratti di durata nel diritto intermedio è il richiamo ad un principio diffuso tra i commentatori medioevale e consolidato nel diritto comune, secondo il quale ‘contractus quia habent tractum successivum et dependentia de futuro, rebus sic stantibus intelliguntur’. Si tratta d’una ‘aequitas quidem est admirabile quoddam temperamentum’, la ‘perfecta ratione’ che ‘omnia moderatur’, una ‘reductio’ saldata nella ‘aequitas’ che , come abbiamo detto, ‘in omnes contractus servanda’ per correggere ogni ‘maxima iniquitas’. Nell’età delle grandi Codificazioni, ebbe rilevanza l’incidenza assoluta degli eventi sopravvenuti, nel senso d’impedimento totale oggettivo, cioè, di ‘impossibilità sopravvenuta’ (nachträligen Unmöglichkeit), oggettiva, assoluta e liberatoria causa d’estinzione dell’obbligazione. Così, le due nozioni costanti di ‘vis’ e ‘casus’ vennero ad integrare la categoria dogmatica dell’impossibilità, rimanendo quindi codificato soltanto uno dei profili del problema dell’incompatibilità tra sopravvenienze ed adempimento contrattuale, in generale, della compatibilità tra contratto e realtà. Questa limitata rilevanza della ‘impossibilità’ nell’ampio campo di problemi relativi all’inadempimento di ogni sorta di obbligazioni (e cioè, il problema della compatibilità tra eventi sopravvenuti ed adempimento contrattuale), spiega la centralità della regola ‘culpam praestare-casus a nullo praestantur’ (D. 50, 17, 23) nella tradizione romanistica fino a Domat e Pothier, e la mancanza del concetto di ‘impossibilità’ nei primi articoli che codificarono, in generale, il problema della ‘responsabilità contrattuale’. Tuttavia, il concetto di ‘impossibilità’ ebbe particolare importanza dogmatica nella scienza giuridica tedesca, infatti, fino alla prima metà del XIX secolo era stato il ‘casus’ il concetto tradizionale che costituiva il limite alla responsabilità; il significato di ‘evento fortuito’ con efficacia esimente (vis-casus a nullo praestantur) fu sostituito con quello dell’impossibilità sopravvenuta che assunse rilevanza come esimente della responsabilità. L’attenzione si spostò quindi dal giudizio sulla ‘colpa’ al giudizio, in astratto, sulla ‘possibilità’ dell’adempimento. Questo favorì ulteriori costruzioni dogmatiche su quelle anomalie non imputabili, causa non d’impossibilità assoluta, ma di ‘eccesiva onerosità’, una ‘difficultas’ economica rilevante ai fini dell’adempimento, un’ipotesi di, cioè, ‘ineseguibilità della prestazione’ per lo sconvolgimento dell’aspettativa e gli interessi d’una delle parti. Si tratta d’un mutamento essenziale nella natura dell’adempimento, ma non è una forma attenuata d’impossibilità fisica, è piuttosto una forma qualitativamente diversa nel senso che, l’adempimento, sebbene ancora possibile, se eseguito nelle nuove circostanze sarebbe eccessivamente oneroso rispetto le circostanze iniziale che governavano il rapporto, o, comunque, diverso in confronto dell’acordo tra le parti. Lo squilibrio tra le prestazioni deve rappresentare una grossa disparità, e per mezzo l’adattamento fondato nei principi di morale e di giustizia, si avanza per ripristinare la simmetria del contratto, l’equivalenza tra i doveri, evitando rovine ed arricchimenti ingiustificati. Della validità generale del principio di buona fede derivano doveri essenziali al contratto, come l’informazione, il consiglio, la sicurezza, la collaborazione, e in quest’ultimo radica la cooperazione tra le parti nell’adattamento-conservazione del contratto. La buona fede circola tra le lacune lasciate dal codice, e permette al giudice di transitare entro esse per trovare la ‘compatibilità’ tra le previsioni delle parti nel programma contrattuale, le circostanze di fatto, le circostanze di diritto ed i principi generali del diritto, cioè, trovare la compatibilità tra contratto e realtà di fatto e di diritto. Per questo il contegno delle parti durante l’esecuzione del contratto deve, quindi, essere ‘compatibile’ con le richieste della buona fede e l’equità.

Chamie, J.F. (2010). La adaptación del contrato: el problema de la incompatibilidad entre eventos sobrevenidos y cumplimiento contractual: de la vis cui resisti non potest a las cláusulas de hardship.

La adaptación del contrato: el problema de la incompatibilidad entre eventos sobrevenidos y cumplimiento contractual: de la vis cui resisti non potest a las cláusulas de hardship

2010-06-14

Abstract

L’oggetto di questo lavoro è l’incidenza di eventi sopravvenuti stranei alle parti, anomalie non imputabili che modificano le circostanze iniziali del contratto producendo uno squilibrio sopravvenuto tra le prestazioni; si parla oggi di ‘rischio della realtà’ e di ‘compatibilità’ tra sopravvenienze e adempimento contrattuale, tradizionalmente si parla di ‘rischio contrattuale’, tuttavia, non è soltanto un problema di distribuzione del rischio per sopravvenienze, è il problema degli strumenti per andare oltre, per superare la contingenza, adattare il contratto alla nuova realtà, conservarlo e garantire l’adempimento equitativo delle obbligazioni. Una simile idea di giustizia non è nuova, ella è stata sempre presente nei principi e nell’elaborazione dogmatica del sistema giuridico romanistico. Infatti, la ‘reductio ad aequitatem’ per squilibrio sopravvenuto (laesio superveniens) fu una pratica diffusa nel medioevo, la dottrina medioevale segnalò la necessità di moderare i contratti di durata affetti da squilibrio sopravvenuto, appunto come diceva il Mantica: Sed adverte, quod contractus non continet enormem laesionem ab initio sed ex post facto, propter mutationem temporum, debet moderari, si contractus habeat tractum successivum et futurum tempus recipiat. Tuttavia, questa tradizione entrò in crisi nel XIX secolo col dogma della volontà, per poscia rifiorire con l’inversione di tendenza nel XX secolo che dal paradigma dell'assolutezza dei contratti aprì le porte ad un nuovo paradigma, quello delle esigenze della buona fede, della collaborazione e la solidarietà, dell’equità, in fine, della giustizia contrattuale. Il paradigma della ‘relatività del vincolo obbligatorio’ ed il suo necessario adattamento. Nel Diritto Romano, la distruzione o lo smarrimento della cosa oggetto del rapporto contrattuale che non implica un intercambio definitivo, quando non sia imputabile all’opera o la volontà dell’uomo, corrisponde necessariamente al ‘dominus’, non in quanto moralmente equitativo, ma piuttosto in quanto coerente con un ordine naturale delle cose che l’equità impone. La ‘ratio’ che si trova alla base della regola ‘damnum domini’ e dell’attribuzione del ‘praestare’ al ‘dominus’, radica nell’accentuare del rapporto di ‘dominium’ che vincola al contrattante con la ‘res’, ed è la valutazione del ‘oportere’ in termini di ‘fides bona’ che in questi casi viene a impedire, da una parte, che al contrattante non-dominus siano allocati taluni rischi, e dall’altra, a permettere che di loro si faccia carico il ‘dominus’. Con Labeone il ‘praestare’ non fu più l’unico fondamento dell’azione in caso di sopravvenienze, di eventi sopravvenuti ed irresistibili. Labeone modificò profondamente il criterio serviano poiché si superò la ragione d’essere del contenuto del ‘praestare’ come unica condizione di soggezione al ‘actione teneri’, cioè, che i danni per inadempimento possono essere imputati ad una delle parti non soltanto come conseguenza del ‘praestare’, ma anche dell’avvenire di circostanze non imputabili a titolo di responsabilità; si distingueva così chiaramente il ‘dolum-culpam praestare’, del ‘periculum’, senza che ciò abbia rappresentato una concezione unitaria del problema. Labeone propose un modello complesso ed articolato che superò l’ambito tradizionale attribuendo rischi a taluni debitori non-dominus, in attenzione all’interpretazione tipica dell’attività che le parti si prospettavano di realizzare col contratto, così come le modalità e gli interessi impliciti nell’operazione economica. Si tratta della valutazione del ‘oportere’ alla luce della ‘fides bona’, e dall’altra parte, del dualismo ‘bona fides-aequitas’ all’interno del dibattito giurisprudenziale sull’efficacia giustificante dell’evento irresistibile definito come ‘vis maior’. Sebbene nel Diritto Romano sia piuttosto complesso individuare un processo di costruzione dogmatica unitario in materia di ‘periculum’, in ogni caso è possibile individuare sì una ‘ratio’ comune: la necessità di garantire la correlazione tra l’impegno patrimoniale di ciascuna delle parti e l’esito positivo delle sue aspettative, ciò implica una tutela oggettiva in caso di non realizzarsi la causa synallagmatica persino là ove non c’è responsabilità del debitore della prestazione, conforme ai criteri tipici e riguardo ogni singola obbligazione. Il sistema medievale mitigò il rigore dello ‘strictum ius’ sopprimendo la distinzione tra contratti di diritto stretto e contratti di buona fede; la giustificazione di questa operazione interpretativa trova la sua base nell’emblematica nozione d’equità dei ‘doctores’ medioevali (Baldo: Ego puto, quod de aequitate canonica omnes contractus mundi sunt bonae fidei, non quantum ad titulum actionis, sed quo ad mentem et substantiam intentionis), un’equità diversa della romana sì, ma che comunque in ‘omnes contractus servanda’ per correggere ogni ‘maxima iniquitas’ (Nider: Cum tam secundum Theologos quam per Philosophos in omni contractu aequalitas debeat servari). Che nel sistema circolava già una forza nuova, l’equità, e che la dottrina ne era consapevole, lo attestano le fonti. Ma in verità, la questione dell’equità –così come la buona fede- ha una portata ancor maggiore e radici ancor più profonde (si pensi soltanto alla definizione dello ‘ius’ come arte del ‘buono et aequo’), fin che il problema no si affrontò dalla prospettiva della sola tecnica ermeneutica, fu rimasto sempre un enigma, o fu ridotto a mero canone d’interpretazione, fin che ebbe di manifestarsi come correttivo benevolo del ‘rigor iuris’. Il sistema della Scuola medioevale ebbe un ruolo fondamentale, così come per la ‘laesio enormis’ i medioevali attinsero ad un’interpretazione contestuale che aprì le porte alla generalizzazione, così ugualmente si fece con la clausola ‘rebus sic stantibus’, rivelandosi in questo modo i due istituti cardinali dell’elaborazione della dottrina medioevale. In questo senso, se si pensa alla distinzione attribuita a Bartolo tra ‘contractus qui unico momento perficitur’ e ‘contractus quia habent tractum successivum’, si osserva che se il momento della celebrazione del contratto coincide con la sua esecuzione, è sufficiente che l’equilibrio tra le prestazioni rimanga in tale momento iniziale, in caso contrario, il vincolo si può modificare o rescindere per ‘laesio enormis’; ma se l’esecuzione del contratto è differita, l’equilibrio tra le prestazioni deve rimanere nel trascorso della sua esecuzione, in caso contrario, il contratto si può modificare o risolversi per ‘laesio superveniens’ in applicazione della c. d. clausola ‘rebus sic stantibus’. La ‘moderazione’ dei contratti di durata nel diritto intermedio è il richiamo ad un principio diffuso tra i commentatori medioevale e consolidato nel diritto comune, secondo il quale ‘contractus quia habent tractum successivum et dependentia de futuro, rebus sic stantibus intelliguntur’. Si tratta d’una ‘aequitas quidem est admirabile quoddam temperamentum’, la ‘perfecta ratione’ che ‘omnia moderatur’, una ‘reductio’ saldata nella ‘aequitas’ che , come abbiamo detto, ‘in omnes contractus servanda’ per correggere ogni ‘maxima iniquitas’. Nell’età delle grandi Codificazioni, ebbe rilevanza l’incidenza assoluta degli eventi sopravvenuti, nel senso d’impedimento totale oggettivo, cioè, di ‘impossibilità sopravvenuta’ (nachträligen Unmöglichkeit), oggettiva, assoluta e liberatoria causa d’estinzione dell’obbligazione. Così, le due nozioni costanti di ‘vis’ e ‘casus’ vennero ad integrare la categoria dogmatica dell’impossibilità, rimanendo quindi codificato soltanto uno dei profili del problema dell’incompatibilità tra sopravvenienze ed adempimento contrattuale, in generale, della compatibilità tra contratto e realtà. Questa limitata rilevanza della ‘impossibilità’ nell’ampio campo di problemi relativi all’inadempimento di ogni sorta di obbligazioni (e cioè, il problema della compatibilità tra eventi sopravvenuti ed adempimento contrattuale), spiega la centralità della regola ‘culpam praestare-casus a nullo praestantur’ (D. 50, 17, 23) nella tradizione romanistica fino a Domat e Pothier, e la mancanza del concetto di ‘impossibilità’ nei primi articoli che codificarono, in generale, il problema della ‘responsabilità contrattuale’. Tuttavia, il concetto di ‘impossibilità’ ebbe particolare importanza dogmatica nella scienza giuridica tedesca, infatti, fino alla prima metà del XIX secolo era stato il ‘casus’ il concetto tradizionale che costituiva il limite alla responsabilità; il significato di ‘evento fortuito’ con efficacia esimente (vis-casus a nullo praestantur) fu sostituito con quello dell’impossibilità sopravvenuta che assunse rilevanza come esimente della responsabilità. L’attenzione si spostò quindi dal giudizio sulla ‘colpa’ al giudizio, in astratto, sulla ‘possibilità’ dell’adempimento. Questo favorì ulteriori costruzioni dogmatiche su quelle anomalie non imputabili, causa non d’impossibilità assoluta, ma di ‘eccesiva onerosità’, una ‘difficultas’ economica rilevante ai fini dell’adempimento, un’ipotesi di, cioè, ‘ineseguibilità della prestazione’ per lo sconvolgimento dell’aspettativa e gli interessi d’una delle parti. Si tratta d’un mutamento essenziale nella natura dell’adempimento, ma non è una forma attenuata d’impossibilità fisica, è piuttosto una forma qualitativamente diversa nel senso che, l’adempimento, sebbene ancora possibile, se eseguito nelle nuove circostanze sarebbe eccessivamente oneroso rispetto le circostanze iniziale che governavano il rapporto, o, comunque, diverso in confronto dell’acordo tra le parti. Lo squilibrio tra le prestazioni deve rappresentare una grossa disparità, e per mezzo l’adattamento fondato nei principi di morale e di giustizia, si avanza per ripristinare la simmetria del contratto, l’equivalenza tra i doveri, evitando rovine ed arricchimenti ingiustificati. Della validità generale del principio di buona fede derivano doveri essenziali al contratto, come l’informazione, il consiglio, la sicurezza, la collaborazione, e in quest’ultimo radica la cooperazione tra le parti nell’adattamento-conservazione del contratto. La buona fede circola tra le lacune lasciate dal codice, e permette al giudice di transitare entro esse per trovare la ‘compatibilità’ tra le previsioni delle parti nel programma contrattuale, le circostanze di fatto, le circostanze di diritto ed i principi generali del diritto, cioè, trovare la compatibilità tra contratto e realtà di fatto e di diritto. Per questo il contegno delle parti durante l’esecuzione del contratto deve, quindi, essere ‘compatibile’ con le richieste della buona fede e l’equità.
14-giu-2010
A.A. 2009/2010
adeguamento
adempimento
buona fede
caso fortuito
forza maggiore
cooperazione
dovere
equità
impossibilità
onerosità eccessiva
Settore IUS/02 - DIRITTO PRIVATO COMPARATO
es
Tesi di dottorato
Chamie, J.F. (2010). La adaptación del contrato: el problema de la incompatibilidad entre eventos sobrevenidos y cumplimiento contractual: de la vis cui resisti non potest a las cláusulas de hardship.
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