Nel 1908 Luigi Pirandello, in preparazione al concorso per diventare professore ordinario di Linguistica e Stilistica al Regio Istituto Superiore di Magistero di Roma, dava alle stampe L’umorismo (essenza, caratteri e materia), dopo una lunga elaborazione dell’argomento trattato in numerosi saggi precedenti. A distanza di dodici anni, e in seguito all’aspra critica proferita da Benedetto Croce, l’autore editava nuovamente il volume in una versione integrata che segna, anche in conseguenza di tanta letteratura e tanto teatro da lui prodotti in quegli anni, la definizione del termine “umorismo” in una precisa accezione poetico-filosofica, divenendo, in tal modo, un punto di riferimento imprescindibile nella storia della teoria del comico e dell’umorismo a lui successiva. L’operazione portata avanti da Pirandello nel saggio del 1908 era, d’altronde, tesa proprio alla ridefinizione del termine umorismo, che viene identificato non soltanto con il famoso sintagma di “sentimento del contrario”, ma con una più complessa dinamica che vede il comico parte integrante e funzionale alla realizzazione del sentimento umoristico portatore, inoltre, di significati altri, e strettamente connessi, quali il “sentirsi vivere”, la prospettiva della “lanterninosofia” e la “perplessità” ovvero quel particolare sentimento di sospensione tra “il sì e il no”. L’influenza esercitata dal più grande drammaturgo italiano del Novecento sul teatro dei suoi contemporanei e successori, tanto da un punto di vista della teoria dell’umorismo che della sua pratica teatrale, è indiscutibile, ma nelle innumerevoli fenomenologie teatrali del secolo, anche le più vicine all’autore ovvero nella prima metà del Novecento, molti altri drammaturghi si sono provati nel genere comico-umoristico, producendo risultati spesso anche molto lontani dalla concezione pirandelliana. Da tempo ormai, in ambito teorico, si discute sulla necessità di una regolamentazione di termini da usare per le varie sfumature del comico (ironia, parodia, farsa, commedia, grottesco, caricatura, dop-pio senso, motto di spirito, freddura, ecc.) e, proprio in un’ottica post-pirandelliana, a una sua precisa distinzione dall’umorismo. Si tratta sicuramente di un’impresa teorica troppo ampia e quasi impossibile da praticare. L’analisi, però, di uno solo di questi termini, e del concetto che esso veicola, può essere uno spunto di approfondimento e di riflessione per tutta la problematica più vasta della retorica, sociologia, antropologia e psicologia del comico. Si è scelto, con questo intento, il difficile termine di “umorismo” e lo si è voluto legare a due autori che lo interpretarono e realizzarono in forme diverse a dimostrazione tanto della varietà delle interpretazioni, quanto delle sfumature legate al campo semantico del comico, quanto, infine, alle diverse e pur contemporanee modalità di rappresentazione nel teatro moderno. Luigi Pirandello, Peppino De Filippo e Achille Campanile sono tre autori che difficilmente vengono accomunati, se non in particolari circostanze, e per differenze poetiche e per distanze di genere e per la diversa considerazione in cui vengono tenuti. Luigi Pirandello è indubbiamente il più grande drammaturgo italiano e poco sembrerebbe aver a che fare con Peppino De Filippo, noto ai più come fratello ‘minore’ del più famoso Eduardo o come spalla di Totò, o meno ancora con Achille Campanile, giornalista, romanziere, drammaturgo, noto a molti unicamente come ‘umorista’ e solo di recente entrato nelle sfere degli studi accademici. Eppure, nella seconda metà degli anni Venti, sulle scene del teatro italiano i tre autori si trovano ad essere, o promettere di essere, protagonisti dei palcoscenici di tutta Italia. Mentre Pirandello affermava la sua grandezza di drammaturgo di fama internazionale con l’apogeo metateatrale della sua opera, Peppino De Filippo, dopo la morte di Eduardo Scarpetta, muoveva a Napoli i suoi primi passi nella compagnia del grande attore pulcinellesco Salvatore De Muto e, a Roma, Achille Campanile stupiva il pubblico del Teatro degli Indipendenti, fondato da Anton Giulio Bragaglia, con la sua comicità assurda e ricca di complesse sfumature. In età diverse, ed in momenti diversi della propria carriera di drammaturghi, i tre autori si trovano ad essere contemporanei esponenti del teatro moderno, tutti e tre usando, in forme, intuizioni e interpretazioni differenti, l’umorismo. Nella ricerca, voluta o meno, del moderno, tutti e tre questi protagonisti delle scene del primo Novecento hanno portato un notevole contribuito: Luigi Pirandello con la “lanterninosofia” e il “sentimento del contrario” ha rivoluzionato il teatro del Novecento proiettandolo verso il nuovo millennio; Peppino De Filippo, che nel teatro pirandelliano ha sentito persino la presenza di “vecchi schemi”, ha tentato di andare oltre l’umorismo tornando alla comicità quale essenziale veicolo della tragedia umana; infine Achille Campanile ha proposto una comicità, forse sintomo del secolo della crisi, basata sulla rottura delle regole della razionalità. In queste tre vie del teatro moderno, il comico e l’umorismo entrano in relazione e si fondano come concetto basilare d’intendere il dramma, la commedia e la loro messinscena. Per Luigi Pirandello il comico è funzionale all’umorismo, perché solo attraverso “l’avvertimento del contrario”, e il successivo momento di riflessione sulla natura dello stesso, è possibile giungere all’umorismo nella sua accezione di “sentimento del contrario”. Per Peppino De Filippo l’umorismo nasce, invece, dall’incontro di realtà contrastanti, dalla commedia e dalla tragedia umane nelle loro compresenti manifestazioni, e si realizza in un comico buffonesco, dialettale e non, dallo sfondo amaro. Per Achille Campanile, che in realtà neanche accettava l’etichetta di “umorista”, infine, le sfumature e le strategie del comico si ripetono, amplificano e moltiplicano fino a scardinare la stessa distinzione tra i generi letterari. Dati per acquisiti il pensiero e l’opera pirandelliani, l’analisi di alcune delle opere dei due autori, a lui insieme contemporanei e successivi, vuole introdurre alla comprensione delle problematiche relative alla definizione del termine umorismo e, soprattutto, avvicinare alla conoscenza di opere e di autori troppo spesso considerati ‘minori’ proprio perché dediti al genere “comico-umoristico”, rispon-dendo invece a quella che è una caratteristica peculiare della comicità stessa, ovvero, la meraviglia, che è – per mediare un termine piran-delliano – la capacità di ‘sconcertare’ lo spettatore e far saltare tutte le sue aspettative, anche le più improbabili e articolate. La scelta è caduta su Peppino De Filippo e Achille Campanile per diversi motivi che li accomunano. Innanzi tutto perché nel loro modo di concepire, e mettere in pratica, il proprio umorismo, non scindono, seppur per vie diverse ed ugualmente distanti da quelle pirandelliane, il comico dal tragico. In secondo luogo perché si ritiene che la critica letteraria e teatrale, tanto quella a loro contemporanea quanto la odierna, non abbia riservato loro la dovuta considerazione. Forse, negli ultimi anni, qualcosa si sta muovendo e, sicuramente, sono entrambi personaggi noti al grande pubblico, ma, al contempo, considerati ‘minori’, almeno nelle mai eque e, soprattutto, ingiustificate quanto inutili ‘classifiche’ del valore estetico delle opere letterarie. La fama di Peppino De Filippo è legata principalmente alle sue straordinarie doti di attore, ma le sue qualità di autore di opere tea-trali (più di sessanta solo tra farse e commedie) sono rimaste pertroppo tempo nascoste nell’ombra del fratello ‘maggiore’, Eduardo. In modo analogo, Achille Campanile è sempre stato un autore conosciuto al grande pubblico e ampiamente letto, ma relegato nell’ambito di una comicità, considerata persino spicciola, che, sia nelle vesti di romanziere che di drammaturgo, sia nei panni del giornalista che del critico televisivo, lo ha fatto identificare in un “umorista”, ma con tutta l’accezionenegativa che il termine, paragonato alla cultura ‘alta’, può portare con sé. Fortunatamente, però, proprio perché Campanile voleva essere definito “scrittore senza aggettivi”, da qualche anno una mostra su di lui gira l’Italia gridando, nel suo titolo, Umorista sarà lei! Il presente volume, lontano dal voler porre sullo stesso piano Pirandello, De Filippo e Campanile, vorrebbe però tentare di tracciare una linea che, appunto, potesse non seguire tali tradizionali distinzioni di carattere storico-estetico per dare, così, voce a due autori che per ragioni diverse, ma intimamente legate alla natura ‘secondaria’ della letteratura comico-umoristica, sono considerati minori. Rileggere anche solo parzialmente le opere di Peppino De Filippo e Achille Campanile in un’ottica umoristica post-pirandelliana può, al contrario, aiutare a ricostruire le metamorfosi del comico e insieme la polisemia del termine umorismo che, nonostante le ribel-lioni e le fratture, sono legati a quell’eredità lasciata da Pirandello. E, tutto ciò, tenendo sempre lo sguardo a un panorama molto più ampio che mostra, ancora una volta, come il comico e l’umorismo, ai quali si lega strettamente il senso tragico della vita, divengono insieme ingredienti principali del teatro moderno ‘da’ e ‘oltre’ Luigi Pirandello.

Nardi, F. (2007). L’umorismo nel teatro italiano del primo Novecento : Peppino De Filippo e Achille Campanile. Manziana : Vecchiarelli.

L’umorismo nel teatro italiano del primo Novecento : Peppino De Filippo e Achille Campanile

NARDI, FLORINDA
2007-01-01

Abstract

Nel 1908 Luigi Pirandello, in preparazione al concorso per diventare professore ordinario di Linguistica e Stilistica al Regio Istituto Superiore di Magistero di Roma, dava alle stampe L’umorismo (essenza, caratteri e materia), dopo una lunga elaborazione dell’argomento trattato in numerosi saggi precedenti. A distanza di dodici anni, e in seguito all’aspra critica proferita da Benedetto Croce, l’autore editava nuovamente il volume in una versione integrata che segna, anche in conseguenza di tanta letteratura e tanto teatro da lui prodotti in quegli anni, la definizione del termine “umorismo” in una precisa accezione poetico-filosofica, divenendo, in tal modo, un punto di riferimento imprescindibile nella storia della teoria del comico e dell’umorismo a lui successiva. L’operazione portata avanti da Pirandello nel saggio del 1908 era, d’altronde, tesa proprio alla ridefinizione del termine umorismo, che viene identificato non soltanto con il famoso sintagma di “sentimento del contrario”, ma con una più complessa dinamica che vede il comico parte integrante e funzionale alla realizzazione del sentimento umoristico portatore, inoltre, di significati altri, e strettamente connessi, quali il “sentirsi vivere”, la prospettiva della “lanterninosofia” e la “perplessità” ovvero quel particolare sentimento di sospensione tra “il sì e il no”. L’influenza esercitata dal più grande drammaturgo italiano del Novecento sul teatro dei suoi contemporanei e successori, tanto da un punto di vista della teoria dell’umorismo che della sua pratica teatrale, è indiscutibile, ma nelle innumerevoli fenomenologie teatrali del secolo, anche le più vicine all’autore ovvero nella prima metà del Novecento, molti altri drammaturghi si sono provati nel genere comico-umoristico, producendo risultati spesso anche molto lontani dalla concezione pirandelliana. Da tempo ormai, in ambito teorico, si discute sulla necessità di una regolamentazione di termini da usare per le varie sfumature del comico (ironia, parodia, farsa, commedia, grottesco, caricatura, dop-pio senso, motto di spirito, freddura, ecc.) e, proprio in un’ottica post-pirandelliana, a una sua precisa distinzione dall’umorismo. Si tratta sicuramente di un’impresa teorica troppo ampia e quasi impossibile da praticare. L’analisi, però, di uno solo di questi termini, e del concetto che esso veicola, può essere uno spunto di approfondimento e di riflessione per tutta la problematica più vasta della retorica, sociologia, antropologia e psicologia del comico. Si è scelto, con questo intento, il difficile termine di “umorismo” e lo si è voluto legare a due autori che lo interpretarono e realizzarono in forme diverse a dimostrazione tanto della varietà delle interpretazioni, quanto delle sfumature legate al campo semantico del comico, quanto, infine, alle diverse e pur contemporanee modalità di rappresentazione nel teatro moderno. Luigi Pirandello, Peppino De Filippo e Achille Campanile sono tre autori che difficilmente vengono accomunati, se non in particolari circostanze, e per differenze poetiche e per distanze di genere e per la diversa considerazione in cui vengono tenuti. Luigi Pirandello è indubbiamente il più grande drammaturgo italiano e poco sembrerebbe aver a che fare con Peppino De Filippo, noto ai più come fratello ‘minore’ del più famoso Eduardo o come spalla di Totò, o meno ancora con Achille Campanile, giornalista, romanziere, drammaturgo, noto a molti unicamente come ‘umorista’ e solo di recente entrato nelle sfere degli studi accademici. Eppure, nella seconda metà degli anni Venti, sulle scene del teatro italiano i tre autori si trovano ad essere, o promettere di essere, protagonisti dei palcoscenici di tutta Italia. Mentre Pirandello affermava la sua grandezza di drammaturgo di fama internazionale con l’apogeo metateatrale della sua opera, Peppino De Filippo, dopo la morte di Eduardo Scarpetta, muoveva a Napoli i suoi primi passi nella compagnia del grande attore pulcinellesco Salvatore De Muto e, a Roma, Achille Campanile stupiva il pubblico del Teatro degli Indipendenti, fondato da Anton Giulio Bragaglia, con la sua comicità assurda e ricca di complesse sfumature. In età diverse, ed in momenti diversi della propria carriera di drammaturghi, i tre autori si trovano ad essere contemporanei esponenti del teatro moderno, tutti e tre usando, in forme, intuizioni e interpretazioni differenti, l’umorismo. Nella ricerca, voluta o meno, del moderno, tutti e tre questi protagonisti delle scene del primo Novecento hanno portato un notevole contribuito: Luigi Pirandello con la “lanterninosofia” e il “sentimento del contrario” ha rivoluzionato il teatro del Novecento proiettandolo verso il nuovo millennio; Peppino De Filippo, che nel teatro pirandelliano ha sentito persino la presenza di “vecchi schemi”, ha tentato di andare oltre l’umorismo tornando alla comicità quale essenziale veicolo della tragedia umana; infine Achille Campanile ha proposto una comicità, forse sintomo del secolo della crisi, basata sulla rottura delle regole della razionalità. In queste tre vie del teatro moderno, il comico e l’umorismo entrano in relazione e si fondano come concetto basilare d’intendere il dramma, la commedia e la loro messinscena. Per Luigi Pirandello il comico è funzionale all’umorismo, perché solo attraverso “l’avvertimento del contrario”, e il successivo momento di riflessione sulla natura dello stesso, è possibile giungere all’umorismo nella sua accezione di “sentimento del contrario”. Per Peppino De Filippo l’umorismo nasce, invece, dall’incontro di realtà contrastanti, dalla commedia e dalla tragedia umane nelle loro compresenti manifestazioni, e si realizza in un comico buffonesco, dialettale e non, dallo sfondo amaro. Per Achille Campanile, che in realtà neanche accettava l’etichetta di “umorista”, infine, le sfumature e le strategie del comico si ripetono, amplificano e moltiplicano fino a scardinare la stessa distinzione tra i generi letterari. Dati per acquisiti il pensiero e l’opera pirandelliani, l’analisi di alcune delle opere dei due autori, a lui insieme contemporanei e successivi, vuole introdurre alla comprensione delle problematiche relative alla definizione del termine umorismo e, soprattutto, avvicinare alla conoscenza di opere e di autori troppo spesso considerati ‘minori’ proprio perché dediti al genere “comico-umoristico”, rispon-dendo invece a quella che è una caratteristica peculiare della comicità stessa, ovvero, la meraviglia, che è – per mediare un termine piran-delliano – la capacità di ‘sconcertare’ lo spettatore e far saltare tutte le sue aspettative, anche le più improbabili e articolate. La scelta è caduta su Peppino De Filippo e Achille Campanile per diversi motivi che li accomunano. Innanzi tutto perché nel loro modo di concepire, e mettere in pratica, il proprio umorismo, non scindono, seppur per vie diverse ed ugualmente distanti da quelle pirandelliane, il comico dal tragico. In secondo luogo perché si ritiene che la critica letteraria e teatrale, tanto quella a loro contemporanea quanto la odierna, non abbia riservato loro la dovuta considerazione. Forse, negli ultimi anni, qualcosa si sta muovendo e, sicuramente, sono entrambi personaggi noti al grande pubblico, ma, al contempo, considerati ‘minori’, almeno nelle mai eque e, soprattutto, ingiustificate quanto inutili ‘classifiche’ del valore estetico delle opere letterarie. La fama di Peppino De Filippo è legata principalmente alle sue straordinarie doti di attore, ma le sue qualità di autore di opere tea-trali (più di sessanta solo tra farse e commedie) sono rimaste pertroppo tempo nascoste nell’ombra del fratello ‘maggiore’, Eduardo. In modo analogo, Achille Campanile è sempre stato un autore conosciuto al grande pubblico e ampiamente letto, ma relegato nell’ambito di una comicità, considerata persino spicciola, che, sia nelle vesti di romanziere che di drammaturgo, sia nei panni del giornalista che del critico televisivo, lo ha fatto identificare in un “umorista”, ma con tutta l’accezionenegativa che il termine, paragonato alla cultura ‘alta’, può portare con sé. Fortunatamente, però, proprio perché Campanile voleva essere definito “scrittore senza aggettivi”, da qualche anno una mostra su di lui gira l’Italia gridando, nel suo titolo, Umorista sarà lei! Il presente volume, lontano dal voler porre sullo stesso piano Pirandello, De Filippo e Campanile, vorrebbe però tentare di tracciare una linea che, appunto, potesse non seguire tali tradizionali distinzioni di carattere storico-estetico per dare, così, voce a due autori che per ragioni diverse, ma intimamente legate alla natura ‘secondaria’ della letteratura comico-umoristica, sono considerati minori. Rileggere anche solo parzialmente le opere di Peppino De Filippo e Achille Campanile in un’ottica umoristica post-pirandelliana può, al contrario, aiutare a ricostruire le metamorfosi del comico e insieme la polisemia del termine umorismo che, nonostante le ribel-lioni e le fratture, sono legati a quell’eredità lasciata da Pirandello. E, tutto ciò, tenendo sempre lo sguardo a un panorama molto più ampio che mostra, ancora una volta, come il comico e l’umorismo, ai quali si lega strettamente il senso tragico della vita, divengono insieme ingredienti principali del teatro moderno ‘da’ e ‘oltre’ Luigi Pirandello.
2007
Settore L-FIL-LET/10 - LETTERATURA ITALIANA
Italian
Rilevanza nazionale
Monografia
Nardi, F. (2007). L’umorismo nel teatro italiano del primo Novecento : Peppino De Filippo e Achille Campanile. Manziana : Vecchiarelli.
Monografia
Nardi, F
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