Nel 1574, quando Basilio Paravicino porta a termine la stesura del suo Discorso del riso vera proprietà dell’huomo, la produzione letteraria e la trattatistica sulle forme e le fenomenologie del comico avevano raggiunto l’apice di quella parabola che, muovendo dagli insegnamenti degli antichi, avrebbe portato alla metamorfosi della prospettiva con la quale si guardava al riso, la stessa che avrebbe condotto dalla consapevolezza rinascimentale alla nuova sensibilità barocca. L’opera, meglio ancora, si colloca in un decennio cruciale, fondativo, che vede, da un punto di vista teorico, il passaggio dalla riflessione nata sotto l’impulso offerto dalla riscoperta della Poetica di Aristotele alla fine del secolo precedente – veicolata da traduzioni, volgarizzamenti, annotazioni e commenti – a una più autonoma valutazione delle problematiche connesse al riso, capaci di tenere conto non soltanto delle innumerevoli prospettive attraverso le quali guardare alla comicità e al suo caleidoscopio di espressioni, quanto della necessaria aderenza a una realtà sociale e culturale in piena trasformazione. Al fine di poter cogliere la modernità insita, consapevole e meno, nel Discorso del Paravicino è necessario tenere conto del contesto all’interno del quale questo si è andato a collocare, ovvero di quella vastissima produzione teorica che ha letto le manifestazioni del ridere sotto molteplici ed eterogenee angolature, e ciò facendo guardare – come lo stesso Paravicino suggerisce – a “quasi tutti quelli che hanno scritto in tal materia”, per prendere atto, in una visione retrospettiva, delle ‘distanze’ segnate dall’autore tanto con chi è venuto prima quanto con chi è venuto dopo di lui. Punto di partenza, e momento privilegiato, per tutta la riflessione teorica del Cinquecento è stata sicuramente la ‘ricezione’ del testo aristotelico scomparso. Sulle orme del ‘divin filosofo’, e con l’ausilio dei modelli medievali e umanistici, è infatti in questo periodo che si è completamente ridisegnata, o addirittura definita per la prima volta in piena consapevolezza, la riflessione sul comico. La produzione che ne è scaturita è stata il frutto di due differenti tensioni, che corrono, però, parallele e veicolano un comune risultato: da una parte, l’esposizione, con annotazioni e commenti, delle teorie aristoteliche cui si associava la deduzione dei passaggi mancanti o non esaustivi dell’originale; dall’altra, il tentativo di una autonoma integrazione delle esigue tracce della riflessione sulla commedia con una conseguente e inevitabile interpretazione – in chiave ‘aggiornata’, se non moderna – del pensiero aristotelico, non limitato solo alla poetica, ma dettato anche dalle leggi della retorica e dell’etica. Nel cercare di ricostruire però il panorama della riflessione teorica sul riso e sul comico non si può non ricordare che un gran numero di ragionamenti, discorsi, dibattiti e lezioni su “tal materia” si svolgono in uno spazio privilegiato di espressione ovvero nelle Accademie. Luoghi di ‘mediazione’ tra la dimensione pubblica e quella privata, tra l’attività erudita e quella ludica, tra la riflessione teorica e l’esercizio letterario, le Accademie, soprattutto quando ben inserite nelle dinamiche della vita cittadina, hanno anche fornito, lungo tutto il Cinquecento e ben oltre, momenti di contatto tra la cultura ‘alta’ e le espressioni di una cultura popolare. E a partire dalla seconda metà del secolo, su questo processo di elaborazione delle teorie del comico si innesca anche quello sviluppo della creazione artistica che si è rivelato tra i più proficui e produttivi per la produzione letteraria, ma soprattutto teatrale, del comico tanto da segnare nella storia del teatro e dello spettacolo la data di nascita dell’età moderna. Non si può infatti dimenticare che l’ultimo trentennio del Cinquecento insieme al primo del successivo sono considerati il periodo d’oro della Commedia dell’Arte, gli anni dell’affermazione di un nuovo modo di concepire l’arte teatrale, della nascita della professione dell’attore, della strenua difesa dell’utilità sociale e morale del riso in una vasta, seppur ‘alternativa’, produzione teorica sul comico. Nella policromia di questo complesso quadro, allora, arrivano a far sentire il loro peso, insieme e a confronto, almeno altri due ‘agenti’: la Chiesa e la Scienza. In piena Controriforma, infatti, è proprio l’atteggiamento repressivo della Chiesa nei confronti delle basse, popolari, corporali espressioni del comico a stimolare la produzione teorica di tanti ‘professionisti’ del riso in difesa del proprio mestiere e della propria arte. Ed è l’osservazione scientifica della realtà, come della natura umana, a far ormai accettare la verità, da tempo nota, che il riso sia una passione propria solo all’uomo, meglio ancora, l’unica che distingue l’uomo dall’animale. È esattamente su questa linea, in un ben preciso contesto storico e persino all’interno di un peculiare contesto sociale, che si inserisce il lavoro di Basilio Paravicino, capace di costituire un ponte tra l’impostazione rinascimentale e quella barocca, ma anche tra l’analisi umanistica e quella scientifica, coniugando saperi pronti a ridefinire il proprio equilibrio, in nome della nuova e consapevole fiducia nelle capacità dell’ingegno umano. In questo senso, può essere utile – e per certi versi sarebbe quasi sufficiente – l’analisi del titolo completo che il Paravicino dà al suo “trattato sopra il ridere” per capire la complessità e la numerosità degli elementi che vanno a comporlo, nonché per avere la misura di quelle distanze e di quei legami tra la passata tradizione umanistico-rinascimentale e le future intuizioni barocche che, in parte e seppur in continuità, è in grado di anticipare. L’intero frontespizio dell’edizione a stampa porta subito all’attenzione elementi che meritano di essere rimarcati: Discorso del riso vera proprieta dell’huomo. Nel quale con fondamenti & naturali, & morali si dichiarano a pieno le cause e gli effetti suoi, & quanto, & insino a che termine à gentili, e costumate persone esso non disconvenga. Opera non meno utile, che dilettevole ad ogni giudiciosa persona. Composta da M. Basilio Paravicino da Como Medico, e Filosofo. In Como, Appresso Hieronimo Frova M.DC.XV. L’oggetto di questo “picciolo Trattato” è il riso inteso come “vero e proprio accidente dell’huomo”, l’indagine quindi si concentra sull’uomo e sulle sue passioni, con l’obiettivo di analizzare le cause che contribuiscono a caratterizzare questa “proprietà” umana e gli effetti che ad esse conseguono. Il metodo è scientifico, specifico del Medico e del Filosofo Naturale, che però, vista la particolarità della materia, non potrà fare a meno di sostenere la sua ricerca della verità anche con l’“altra Filosofia”, tanto che, dopo questa opera – come prevede l’amico Paolo Manuzio – l’autore potrà avvalersi anche del titolo di Filosofo Morale. Ma l’indagine condotta con minuta logica di scienziato è anche capace di attraversare trasversalmente le tante discipline che si occupano di “tal materia” e non rimane, quindi, affatto scollegata da cause ed effetti di natura sociale e morale del riso il quale, proprio perché precipua passione umana, non solo è per l’uomo congenito e naturale al punto da non poter essere più rinnegato od ostracizzato dalla sua attenzione, ma può essere, se guidato dal giudizio dell’uomo, conveniente, e insieme utile e dilettevole, anche alle persone gentili e costumate. È sufficiente restituire la carica semantica distintiva del Cinquecento ai termini quali convenienza, gentilezza, costumatezza, o all’evocativa dicotomia utile e dilettevole, per capire quanta tradizione è programmaticamente contenuta già nel titolo del Discorso del riso, ma soprattutto come nell’inserimento del ruolo attivo del giudizio umano si possa ravvedere non soltanto la formalità della ‘maniera’, quanto più il libero e autonomo discernimento dell’‘ingegno’. Il Paravicino, come si è detto, affronta l’argomento dichiaratamente con gli strumenti del Medico e del Filosofo, ma a segnare la singolarità del suo lavoro – in un’indagine che si è già delineata come trasversale e che potrebbe, con uno slittamento semantico verso la contemporaneità, essere definita multi e interdisciplinare – è anche il contesto storico-sociale in cui la realizza; non più considerato in un vasto panorama culturale che abbraccia la trattatistica sul comico tra Cinque e Seicento, quanto nella specifica dimensione sociale dell’ambiente intellettuale in cui l’opera viene concepita e prodotta. Basilio Paravicino compone il Discorso, come lui stesso afferma, “ad instanza del Cardinale Amulio”, ovvero del prefetto della Biblioteca Apostolica Vaticana, nel lungo periodo in cui si trova a Roma alla Corte e al servizio del Cardinale di Como, Tolomeo Gallio. Con il Cardinale Gallio, e suo fratello Marco, il Paravicino aveva condiviso in gioventù gli studi sotto la guida dell’illustre comasco Benedetto Giovio e con lui “specialmente strinse famigliarità ed amicizia che erano ad esempio delle altre”. Pertanto quando Tolomeo Gallio, già al servizio Cardinale Gian Angelo Medici, futuro papa Pio IV, viene da lui nominato Cardinale e suo segretario nel 1565 si comincia ad aprire per l’amico Basilio la strada che lo condurrà ad una ascendente carriera presso la corte pontificia e tale da correre parallela a quella del Gallio, tanto che alla sua successiva nomina, per opera di papa Gregorio XIII, a Segretario di Stato corrisponderà il titolo e il ruolo di Medicus Palatinus attribuito al Paravicino dallo stesso papa. È quindi in questo ambiente ecclesiastico e nel clima culturale e intellettuale della Controriforma che matura il Discorso del riso vera proprietà dell’huomo di Basilio Paravicino. Ancora una volta, dunque, soprattutto se si ricorda che fu proprio Gregorio XIII, ed esattamente nel 1574, a decretare l’espulsione dei comici e a vietare gli spettacoli teatrali, fatta eccezione per quelli dei Gesuiti e delle Accademie, si individua subito un altro importante aspetto che contribuisce a sottolineare la singolarità del Discorso del riso del Paravicino per materia, contesto e tempistica. Nondimeno, poi, va rammentato che, intorno al 1601 – come testimonia il frontespizio di un’altra opera dello stesso autore, Il trattato apologetico4 –, ormai in tarda età, il medico e filosofo viene anche consacrato sacerdote. Ed è forse in queste due ‘volontà’, l’una del papa e l’altra dell’autore, e nei loro conseguenti effetti, che si devono rintracciare le ragioni che vedono la pubblicazione del trattato solo nel 1615, dopo la quasi contestuale scomparsa del suo autore e del suo illustre dedicatario, rispettivamente venuti a mancare, il Paravicino, nel novembre del 1606 e, il Gallio, nel febbraio dell’anno successivo. La lettura delle ‘missive’ dedicatorie che accompagnano il testo è già illuminante nella ricostruzione della sua storia dall’elaborazione alla stampa. Il Discorso del riso viene dato ai torchi di Girolamo Frova da Lelio Ripa – amico e collega del Paravicino cui l’opera era stata affidata – che lo dedica, per continuità e specularità di rapporti, all’Abate Gallio, ovvero a Marco Gallio, nipote del più illustre Tolomeo. Con queste parole il Ripa giustifica, nel 1615, il ritardo della stampa e la motivazione della sua “meritevole” pubblicazione: "All’Ill.mo et R.mo signore il Sig. Abbate Gallio Patron mio colendissimo. Essendomi stato dato gli anni passati dall’Eccell. Sig. Basilio Paravicino un trattato intorno al ridere, da lui composto in Roma, stando alla servitù della felice memoria dell’Illustriss. e Reverendiss. Sig. Cardinale di Como Zio di V. Illustrissima, volendolo mettere alla Stampa sotto il nome di Sua Signoria Illustrissima, onde ne acquistasse credito & riputatione passando sotto tanta grande ombra, sopravenendo la morte, rimase sin’al presente affatto morta, dove che ella per se stessa era d’ogni longhissima vita meritevole. Ho pensato per darli nuova vita di consecrarla a V.S. Illustrissima come herede & imitatore di sì gran Prelato di Santa Chiesa, & honor della nostra Città. Accetila donque V.S. Illustrissima per segno della vera servitù e real mia divotione verso l’Illustrissima Persona, & Casa sua, conforme alla vecchia di mio padre, prima che detto Sig. Cardinale vestisse quella sacra, & da lui tanto meritata porpora, interrotta da poi dalla morte". (Dis., pp. 3-4) Il Ripa vuole rispettare la volontà del Paravicino nell’onorare una famiglia che tanto lustro ha dato al suo autore e alla sua città, tanto da sembrare imitarlo persino formalmente. Nella dedica del Paravicino “All’Illustrissimo e Reverendissimo Sig. mio Osservandissimo il Cardinale di Como”, datata 1574, si legge: "Havendo io già ad instanza del Cardinale Amulio scritto uno picciolo Trattato sopra il Riso, ne havendogli dato quella perfettione, che io desiderava per poterglielo poi con mia satisfattione presentare per la sua morte, che seguì in brieve, l’hò ridotto hora a quella forma che mi pare, che possa comparere nel conspetto delle persone, & sapendo quanto amore, & domestichezza era tra esso Cardinale, & V.S. Illustrissima, & quanto obligo io le hò, per li infiniti beneficij da lei ricevuti, & che di continuo ricevo, & oltra ciò parendomi non esser fuori di proposito offerirle questo libretto di spasso, per dare qualche alleviamento alle molte, & grandi occupationi delle cose del governo, al quale per lo suo sommo valore è stata dalla Santità di N. Signore Gregorio Papa Decimoterzo eletta, come fu un’altra volta dalla buona, & felice memoria di Pio Quarto, hò pensato di non poter far cosa più conveniente alla servitù mia verso di lei, che donarlo a V.S. Illustrissima [...]".(Dis., pp. 5-6) E ai riferimenti diretti ai protagonisti della vita nella corte pontificia si aggiunge anche, nel ringraziamento al suo signore e nella difesa della propria opera davanti ad occhi severi, perché tanto illustri, seppur benevoli, un chiaro ragguaglio sulle modalità e sulla qualità della partecipazione di chi scrive a quella stessa condizione di “Corteggiano”. "Sperando io dunque, che ella non solo per la cosa istessa, ma anco per la sua molta benignità, le debba veder volontieri, la supplico in ricompensa, che si come con la sua grandissima auttorità m’hà sempremai favorito, & portato inanti, con propormi, & lodarmi in ogni occasione appresso i principali di questa Corte, da quali con difficoltà senza il suo mezzo mi sarei potuto far conoscere, & m’hà sempremai guardato di buon’occhio & servitosi di me, non solo nella mia professione principale: ma anco in ogni altro suo servitio secondo che le è occorso il bisogno, la qual cosa m’è sempre stata di grandissima consolatione, poiche per questa causa hò conosciuto non tanto d’esser in sua buona gratia, ma anco d’esser sommamente tenuto caro, & amato da tutta la Corte: cosi voglia degnarsi di conservarmi d’ogni hora in quello medesimo, & miglior stato, & farmi nell’avvenire de simili, & maggiori favori, se però ella giudicherà che io non ne sia in tutto inde-gno: poiche anch’io, il quale mediocremente conosco in qual modo si comprende quando uno Corteggiano è in gratia del suo padrone: se bene son stato tardi a venir in Corte; mi sforzarò d’accommodarmi a i costumi d’essa Corte, nelle cose però honorate, & virtuose, & di servir fedelissimamente V.S. Illustrissima, il cui honore, & vita mi sarà sempre cara, se non più, almeno al pari della mia". (Dis., pp. 7-8) E alla captatio benevolentiae dell’autore segue l’ancor più significativa lode del suo primo lettore ed amico, Paolo Manuzio. All’editore veneziano, che il Paravicino aveva conosciuto e frequentato durante gli anni degli studi padovani, si devono rilevanti parole di commento e introduzione all’opera dell’amico capace di registrare, con acuta lungimiranza e perspicacia pur sempre da contemporaneo, le novità insite nell’impostazione del suo lavoro. Con l’affetto e la sincerità di una sentita amicizia, Manuzio coglie la novità dell’opera e la qualità del segno che potrà lasciare ai posteri, registrando così lode e riconoscimento: “Credetemi Signor Paravicino mio, egli è cosi ben formato in tutte le sue parti, che è per porger alla posterità maraviglia, ed al nome vostro perpetua gloria. L’inventione è divina, e quello che maggior lode le può recare, è tutta vostra[...]” (Dis., pp. 9-11). Si vedrà meglio più avanti, in una più approfondita disamina del testo, come in queste osservazioni di Paolo Manuzio siano contenute le premesse (e le promesse) del discorso del Paravicino: l’equilibrio tra la materia trattata, la metodologia adottata, nonché la forma con cui è espressa; la distanza presa non soltanto dalle posizioni di altri teorici che lo hanno preceduto quanto dai metodi da loro usati; la consapevolezza nella propria conoscenza e nella capacità di applicarla coniugando appositamente i diversi saperi; la speranza, infine, che la virtù di chi è in grado di coniugare questi saperi sia presto riconosciuta come una qualità indispensabile a chi governa e a chi deve essere pronto ai “maneggi del mondo”. Saranno, allora, proprio questi elementi ad essere esaminati ed approfonditi nell’analisi del testo che viene qui riproposto al fine di poterne rivelare la singolarità e riuscire a restituirgli e ‘porgergli’ quella ‘meraviglia’ che pochi suoi contemporanei, e ancor meno numerosi posteri, gli hanno riconosciuto. Sulle orme, quindi, di quanto detto dall’autore fin dalla dedicaal Cardinale Gallio, si focalizzerà l’attenzione sul contenuto del Discorso, sul modo in cui è affrontato l’argomento, considerando soprattutto il “soggetto”, e non tanto il modo con il quale è scritto perché – seppur rilevante, ad esempio, è la scelta della lingua volgare per il trattato ‘scientifico’ di un medico – è lui stesso ad augurarsi che questo suo lavoro non debba esser men grato, scritto in un modo, che in un’altro, "& tanto più perche facendo essa fondamento più del soggetto, & materia, che in essa si tratta, che dello stile, & dell’eleganza, farà giudicio di quella poca d’eruditione, & dottrina, che è in me, la quale ella hà conosciuto anche in altre mie cose". (Dis., p. 7) Si leggerà, quindi, nelle sue parole la consapevolezza, crescente capitolo dopo capitolo, di un uomo e di uno studioso che ha fiducia nelle potenzialità e nelle capacità dell’ingegno umano e si sottolineeranno quei passaggi in cui è possibile individuare, al di là della sintesi sulla lunga tradizione teorica in materia, soprattutto i punti di rottura che proiettano verso la visione secentesca delle problematiche affrontate. In un percorso di lettura guidata al testo – sempre sulla scorta del modello offerto dallo stesso Paravicino – è necessario allora occuparsi, seppur in necessaria sintesi, di “quasi tutti quelli che hanno scritto in tal materia” (Dis., p. 31) per poter collocare l’analisi dell’autore non solo in un preciso momento storico, culturale e sociale, ma anche all’interno di un più ampio e complesso dibattito teorico cui il Paravicino non fa alcun aperto riferimento, bensì, fatta qualche rara e motivata eccezione, liquida intenzionalmente. Questa consapevole presa di distanza dalle contemporanee, o di poco precedenti, discussioni su temi e problematiche connesse al riso, assume un significato ancor più pregnante quando si ripropone nel medesimo atteggiamento, persino rafforzato da un dichiarato e spavaldo senso di superiorità, nei confronti degli Antichi, al punto che in molti luoghi del suo articolare l’essenza, le cause e gli effetti del riso, nonché nel modo del suo procedere analitico, non si può non rimandare il pensiero a quella moderna coscienza del sé che caratterizzerà l’uomo nuovo del Seicento e che porta già il Paravicino a dichiarare, quasi con ‘meravigliosa’ma naturale sfrontatezza: “non è impossibile, che hoggidì una cosa si sappia da uno mediocre litterato, la quale al tempo antico non sia stata intesa, ne anco da i singolari” (Dis., p.13). Infine, ma entrando sempre più nel dettaglio della struttura e delle tematiche affrontate nel testo, si seguirà l’autore nei tanti rivoli in cui conduce il fiume in piena del riso, quella naturale proprietà dell’uomo che già nel 1574, e sempre più superato il primo decennio del secolo successivo, non solo veniva riconosciuta tale, ma non veniva più temuta o repressa (secondo le contraddizioni che hanno caratterizzato il Cinquecento), ma trovava il “modo” di resistere alle pressioni della Riforma cattolica e al rischio di essere gettata via insieme a quelle che erano considerate le forme riprovevoli del comico alle quali ormai la Chiesa aveva ampiamente dichiarato guerra. La singolarità del Discorso del riso – già resa tale dalla posizione sociale, professionale e civile del suo autore – risiede, infatti, anche nella sua capacità di registrare, con piena coscienza della trasformazione, i cambiamenti che stavano intervenendo nel contesto culturale, pubblico e privato, dell’epoca. Il merito del suo autore è sicuramente quello di indagare con rigore scientifico la “vera proprietà dell’huomo”, quella che solo all’uomo è data e, nonostante la propria formazione, carriera e vocazione, di non rinnegare tanta peculiarità in nome del controllo delle passioni, ma legare la passione, propria dell’anima sensitiva, alla ragione, propria dell’anima razionale, coniugando ancora, ma forse per poco, le posizioni della Scienza con quelle della Chiesa, ma già proiettando l’antico verso il moderno ovvero consegnando il riso – nelle cause, negli effetti e soprattutto nei modi di provocarlo – all’ingegno e non tanto per il controllo dell’uno sull’altro, quanto perché il riso possa essere considerato una virtù, e non più un vizio, allorquando imparando “come si deve [...] caminar per mezo di questa virtù” si è “governati dal prudente, & saldo giudicio del l’huomo” (Dis., p. 43)

Nardi, F. (2010). Comico e modernità nel Discorso del riso di Basilio Paravicino. Lecce : Pensa MultiMedia.

Comico e modernità nel Discorso del riso di Basilio Paravicino

NARDI, FLORINDA
2010-01-01

Abstract

Nel 1574, quando Basilio Paravicino porta a termine la stesura del suo Discorso del riso vera proprietà dell’huomo, la produzione letteraria e la trattatistica sulle forme e le fenomenologie del comico avevano raggiunto l’apice di quella parabola che, muovendo dagli insegnamenti degli antichi, avrebbe portato alla metamorfosi della prospettiva con la quale si guardava al riso, la stessa che avrebbe condotto dalla consapevolezza rinascimentale alla nuova sensibilità barocca. L’opera, meglio ancora, si colloca in un decennio cruciale, fondativo, che vede, da un punto di vista teorico, il passaggio dalla riflessione nata sotto l’impulso offerto dalla riscoperta della Poetica di Aristotele alla fine del secolo precedente – veicolata da traduzioni, volgarizzamenti, annotazioni e commenti – a una più autonoma valutazione delle problematiche connesse al riso, capaci di tenere conto non soltanto delle innumerevoli prospettive attraverso le quali guardare alla comicità e al suo caleidoscopio di espressioni, quanto della necessaria aderenza a una realtà sociale e culturale in piena trasformazione. Al fine di poter cogliere la modernità insita, consapevole e meno, nel Discorso del Paravicino è necessario tenere conto del contesto all’interno del quale questo si è andato a collocare, ovvero di quella vastissima produzione teorica che ha letto le manifestazioni del ridere sotto molteplici ed eterogenee angolature, e ciò facendo guardare – come lo stesso Paravicino suggerisce – a “quasi tutti quelli che hanno scritto in tal materia”, per prendere atto, in una visione retrospettiva, delle ‘distanze’ segnate dall’autore tanto con chi è venuto prima quanto con chi è venuto dopo di lui. Punto di partenza, e momento privilegiato, per tutta la riflessione teorica del Cinquecento è stata sicuramente la ‘ricezione’ del testo aristotelico scomparso. Sulle orme del ‘divin filosofo’, e con l’ausilio dei modelli medievali e umanistici, è infatti in questo periodo che si è completamente ridisegnata, o addirittura definita per la prima volta in piena consapevolezza, la riflessione sul comico. La produzione che ne è scaturita è stata il frutto di due differenti tensioni, che corrono, però, parallele e veicolano un comune risultato: da una parte, l’esposizione, con annotazioni e commenti, delle teorie aristoteliche cui si associava la deduzione dei passaggi mancanti o non esaustivi dell’originale; dall’altra, il tentativo di una autonoma integrazione delle esigue tracce della riflessione sulla commedia con una conseguente e inevitabile interpretazione – in chiave ‘aggiornata’, se non moderna – del pensiero aristotelico, non limitato solo alla poetica, ma dettato anche dalle leggi della retorica e dell’etica. Nel cercare di ricostruire però il panorama della riflessione teorica sul riso e sul comico non si può non ricordare che un gran numero di ragionamenti, discorsi, dibattiti e lezioni su “tal materia” si svolgono in uno spazio privilegiato di espressione ovvero nelle Accademie. Luoghi di ‘mediazione’ tra la dimensione pubblica e quella privata, tra l’attività erudita e quella ludica, tra la riflessione teorica e l’esercizio letterario, le Accademie, soprattutto quando ben inserite nelle dinamiche della vita cittadina, hanno anche fornito, lungo tutto il Cinquecento e ben oltre, momenti di contatto tra la cultura ‘alta’ e le espressioni di una cultura popolare. E a partire dalla seconda metà del secolo, su questo processo di elaborazione delle teorie del comico si innesca anche quello sviluppo della creazione artistica che si è rivelato tra i più proficui e produttivi per la produzione letteraria, ma soprattutto teatrale, del comico tanto da segnare nella storia del teatro e dello spettacolo la data di nascita dell’età moderna. Non si può infatti dimenticare che l’ultimo trentennio del Cinquecento insieme al primo del successivo sono considerati il periodo d’oro della Commedia dell’Arte, gli anni dell’affermazione di un nuovo modo di concepire l’arte teatrale, della nascita della professione dell’attore, della strenua difesa dell’utilità sociale e morale del riso in una vasta, seppur ‘alternativa’, produzione teorica sul comico. Nella policromia di questo complesso quadro, allora, arrivano a far sentire il loro peso, insieme e a confronto, almeno altri due ‘agenti’: la Chiesa e la Scienza. In piena Controriforma, infatti, è proprio l’atteggiamento repressivo della Chiesa nei confronti delle basse, popolari, corporali espressioni del comico a stimolare la produzione teorica di tanti ‘professionisti’ del riso in difesa del proprio mestiere e della propria arte. Ed è l’osservazione scientifica della realtà, come della natura umana, a far ormai accettare la verità, da tempo nota, che il riso sia una passione propria solo all’uomo, meglio ancora, l’unica che distingue l’uomo dall’animale. È esattamente su questa linea, in un ben preciso contesto storico e persino all’interno di un peculiare contesto sociale, che si inserisce il lavoro di Basilio Paravicino, capace di costituire un ponte tra l’impostazione rinascimentale e quella barocca, ma anche tra l’analisi umanistica e quella scientifica, coniugando saperi pronti a ridefinire il proprio equilibrio, in nome della nuova e consapevole fiducia nelle capacità dell’ingegno umano. In questo senso, può essere utile – e per certi versi sarebbe quasi sufficiente – l’analisi del titolo completo che il Paravicino dà al suo “trattato sopra il ridere” per capire la complessità e la numerosità degli elementi che vanno a comporlo, nonché per avere la misura di quelle distanze e di quei legami tra la passata tradizione umanistico-rinascimentale e le future intuizioni barocche che, in parte e seppur in continuità, è in grado di anticipare. L’intero frontespizio dell’edizione a stampa porta subito all’attenzione elementi che meritano di essere rimarcati: Discorso del riso vera proprieta dell’huomo. Nel quale con fondamenti & naturali, & morali si dichiarano a pieno le cause e gli effetti suoi, & quanto, & insino a che termine à gentili, e costumate persone esso non disconvenga. Opera non meno utile, che dilettevole ad ogni giudiciosa persona. Composta da M. Basilio Paravicino da Como Medico, e Filosofo. In Como, Appresso Hieronimo Frova M.DC.XV. L’oggetto di questo “picciolo Trattato” è il riso inteso come “vero e proprio accidente dell’huomo”, l’indagine quindi si concentra sull’uomo e sulle sue passioni, con l’obiettivo di analizzare le cause che contribuiscono a caratterizzare questa “proprietà” umana e gli effetti che ad esse conseguono. Il metodo è scientifico, specifico del Medico e del Filosofo Naturale, che però, vista la particolarità della materia, non potrà fare a meno di sostenere la sua ricerca della verità anche con l’“altra Filosofia”, tanto che, dopo questa opera – come prevede l’amico Paolo Manuzio – l’autore potrà avvalersi anche del titolo di Filosofo Morale. Ma l’indagine condotta con minuta logica di scienziato è anche capace di attraversare trasversalmente le tante discipline che si occupano di “tal materia” e non rimane, quindi, affatto scollegata da cause ed effetti di natura sociale e morale del riso il quale, proprio perché precipua passione umana, non solo è per l’uomo congenito e naturale al punto da non poter essere più rinnegato od ostracizzato dalla sua attenzione, ma può essere, se guidato dal giudizio dell’uomo, conveniente, e insieme utile e dilettevole, anche alle persone gentili e costumate. È sufficiente restituire la carica semantica distintiva del Cinquecento ai termini quali convenienza, gentilezza, costumatezza, o all’evocativa dicotomia utile e dilettevole, per capire quanta tradizione è programmaticamente contenuta già nel titolo del Discorso del riso, ma soprattutto come nell’inserimento del ruolo attivo del giudizio umano si possa ravvedere non soltanto la formalità della ‘maniera’, quanto più il libero e autonomo discernimento dell’‘ingegno’. Il Paravicino, come si è detto, affronta l’argomento dichiaratamente con gli strumenti del Medico e del Filosofo, ma a segnare la singolarità del suo lavoro – in un’indagine che si è già delineata come trasversale e che potrebbe, con uno slittamento semantico verso la contemporaneità, essere definita multi e interdisciplinare – è anche il contesto storico-sociale in cui la realizza; non più considerato in un vasto panorama culturale che abbraccia la trattatistica sul comico tra Cinque e Seicento, quanto nella specifica dimensione sociale dell’ambiente intellettuale in cui l’opera viene concepita e prodotta. Basilio Paravicino compone il Discorso, come lui stesso afferma, “ad instanza del Cardinale Amulio”, ovvero del prefetto della Biblioteca Apostolica Vaticana, nel lungo periodo in cui si trova a Roma alla Corte e al servizio del Cardinale di Como, Tolomeo Gallio. Con il Cardinale Gallio, e suo fratello Marco, il Paravicino aveva condiviso in gioventù gli studi sotto la guida dell’illustre comasco Benedetto Giovio e con lui “specialmente strinse famigliarità ed amicizia che erano ad esempio delle altre”. Pertanto quando Tolomeo Gallio, già al servizio Cardinale Gian Angelo Medici, futuro papa Pio IV, viene da lui nominato Cardinale e suo segretario nel 1565 si comincia ad aprire per l’amico Basilio la strada che lo condurrà ad una ascendente carriera presso la corte pontificia e tale da correre parallela a quella del Gallio, tanto che alla sua successiva nomina, per opera di papa Gregorio XIII, a Segretario di Stato corrisponderà il titolo e il ruolo di Medicus Palatinus attribuito al Paravicino dallo stesso papa. È quindi in questo ambiente ecclesiastico e nel clima culturale e intellettuale della Controriforma che matura il Discorso del riso vera proprietà dell’huomo di Basilio Paravicino. Ancora una volta, dunque, soprattutto se si ricorda che fu proprio Gregorio XIII, ed esattamente nel 1574, a decretare l’espulsione dei comici e a vietare gli spettacoli teatrali, fatta eccezione per quelli dei Gesuiti e delle Accademie, si individua subito un altro importante aspetto che contribuisce a sottolineare la singolarità del Discorso del riso del Paravicino per materia, contesto e tempistica. Nondimeno, poi, va rammentato che, intorno al 1601 – come testimonia il frontespizio di un’altra opera dello stesso autore, Il trattato apologetico4 –, ormai in tarda età, il medico e filosofo viene anche consacrato sacerdote. Ed è forse in queste due ‘volontà’, l’una del papa e l’altra dell’autore, e nei loro conseguenti effetti, che si devono rintracciare le ragioni che vedono la pubblicazione del trattato solo nel 1615, dopo la quasi contestuale scomparsa del suo autore e del suo illustre dedicatario, rispettivamente venuti a mancare, il Paravicino, nel novembre del 1606 e, il Gallio, nel febbraio dell’anno successivo. La lettura delle ‘missive’ dedicatorie che accompagnano il testo è già illuminante nella ricostruzione della sua storia dall’elaborazione alla stampa. Il Discorso del riso viene dato ai torchi di Girolamo Frova da Lelio Ripa – amico e collega del Paravicino cui l’opera era stata affidata – che lo dedica, per continuità e specularità di rapporti, all’Abate Gallio, ovvero a Marco Gallio, nipote del più illustre Tolomeo. Con queste parole il Ripa giustifica, nel 1615, il ritardo della stampa e la motivazione della sua “meritevole” pubblicazione: "All’Ill.mo et R.mo signore il Sig. Abbate Gallio Patron mio colendissimo. Essendomi stato dato gli anni passati dall’Eccell. Sig. Basilio Paravicino un trattato intorno al ridere, da lui composto in Roma, stando alla servitù della felice memoria dell’Illustriss. e Reverendiss. Sig. Cardinale di Como Zio di V. Illustrissima, volendolo mettere alla Stampa sotto il nome di Sua Signoria Illustrissima, onde ne acquistasse credito & riputatione passando sotto tanta grande ombra, sopravenendo la morte, rimase sin’al presente affatto morta, dove che ella per se stessa era d’ogni longhissima vita meritevole. Ho pensato per darli nuova vita di consecrarla a V.S. Illustrissima come herede & imitatore di sì gran Prelato di Santa Chiesa, & honor della nostra Città. Accetila donque V.S. Illustrissima per segno della vera servitù e real mia divotione verso l’Illustrissima Persona, & Casa sua, conforme alla vecchia di mio padre, prima che detto Sig. Cardinale vestisse quella sacra, & da lui tanto meritata porpora, interrotta da poi dalla morte". (Dis., pp. 3-4) Il Ripa vuole rispettare la volontà del Paravicino nell’onorare una famiglia che tanto lustro ha dato al suo autore e alla sua città, tanto da sembrare imitarlo persino formalmente. Nella dedica del Paravicino “All’Illustrissimo e Reverendissimo Sig. mio Osservandissimo il Cardinale di Como”, datata 1574, si legge: "Havendo io già ad instanza del Cardinale Amulio scritto uno picciolo Trattato sopra il Riso, ne havendogli dato quella perfettione, che io desiderava per poterglielo poi con mia satisfattione presentare per la sua morte, che seguì in brieve, l’hò ridotto hora a quella forma che mi pare, che possa comparere nel conspetto delle persone, & sapendo quanto amore, & domestichezza era tra esso Cardinale, & V.S. Illustrissima, & quanto obligo io le hò, per li infiniti beneficij da lei ricevuti, & che di continuo ricevo, & oltra ciò parendomi non esser fuori di proposito offerirle questo libretto di spasso, per dare qualche alleviamento alle molte, & grandi occupationi delle cose del governo, al quale per lo suo sommo valore è stata dalla Santità di N. Signore Gregorio Papa Decimoterzo eletta, come fu un’altra volta dalla buona, & felice memoria di Pio Quarto, hò pensato di non poter far cosa più conveniente alla servitù mia verso di lei, che donarlo a V.S. Illustrissima [...]".(Dis., pp. 5-6) E ai riferimenti diretti ai protagonisti della vita nella corte pontificia si aggiunge anche, nel ringraziamento al suo signore e nella difesa della propria opera davanti ad occhi severi, perché tanto illustri, seppur benevoli, un chiaro ragguaglio sulle modalità e sulla qualità della partecipazione di chi scrive a quella stessa condizione di “Corteggiano”. "Sperando io dunque, che ella non solo per la cosa istessa, ma anco per la sua molta benignità, le debba veder volontieri, la supplico in ricompensa, che si come con la sua grandissima auttorità m’hà sempremai favorito, & portato inanti, con propormi, & lodarmi in ogni occasione appresso i principali di questa Corte, da quali con difficoltà senza il suo mezzo mi sarei potuto far conoscere, & m’hà sempremai guardato di buon’occhio & servitosi di me, non solo nella mia professione principale: ma anco in ogni altro suo servitio secondo che le è occorso il bisogno, la qual cosa m’è sempre stata di grandissima consolatione, poiche per questa causa hò conosciuto non tanto d’esser in sua buona gratia, ma anco d’esser sommamente tenuto caro, & amato da tutta la Corte: cosi voglia degnarsi di conservarmi d’ogni hora in quello medesimo, & miglior stato, & farmi nell’avvenire de simili, & maggiori favori, se però ella giudicherà che io non ne sia in tutto inde-gno: poiche anch’io, il quale mediocremente conosco in qual modo si comprende quando uno Corteggiano è in gratia del suo padrone: se bene son stato tardi a venir in Corte; mi sforzarò d’accommodarmi a i costumi d’essa Corte, nelle cose però honorate, & virtuose, & di servir fedelissimamente V.S. Illustrissima, il cui honore, & vita mi sarà sempre cara, se non più, almeno al pari della mia". (Dis., pp. 7-8) E alla captatio benevolentiae dell’autore segue l’ancor più significativa lode del suo primo lettore ed amico, Paolo Manuzio. All’editore veneziano, che il Paravicino aveva conosciuto e frequentato durante gli anni degli studi padovani, si devono rilevanti parole di commento e introduzione all’opera dell’amico capace di registrare, con acuta lungimiranza e perspicacia pur sempre da contemporaneo, le novità insite nell’impostazione del suo lavoro. Con l’affetto e la sincerità di una sentita amicizia, Manuzio coglie la novità dell’opera e la qualità del segno che potrà lasciare ai posteri, registrando così lode e riconoscimento: “Credetemi Signor Paravicino mio, egli è cosi ben formato in tutte le sue parti, che è per porger alla posterità maraviglia, ed al nome vostro perpetua gloria. L’inventione è divina, e quello che maggior lode le può recare, è tutta vostra[...]” (Dis., pp. 9-11). Si vedrà meglio più avanti, in una più approfondita disamina del testo, come in queste osservazioni di Paolo Manuzio siano contenute le premesse (e le promesse) del discorso del Paravicino: l’equilibrio tra la materia trattata, la metodologia adottata, nonché la forma con cui è espressa; la distanza presa non soltanto dalle posizioni di altri teorici che lo hanno preceduto quanto dai metodi da loro usati; la consapevolezza nella propria conoscenza e nella capacità di applicarla coniugando appositamente i diversi saperi; la speranza, infine, che la virtù di chi è in grado di coniugare questi saperi sia presto riconosciuta come una qualità indispensabile a chi governa e a chi deve essere pronto ai “maneggi del mondo”. Saranno, allora, proprio questi elementi ad essere esaminati ed approfonditi nell’analisi del testo che viene qui riproposto al fine di poterne rivelare la singolarità e riuscire a restituirgli e ‘porgergli’ quella ‘meraviglia’ che pochi suoi contemporanei, e ancor meno numerosi posteri, gli hanno riconosciuto. Sulle orme, quindi, di quanto detto dall’autore fin dalla dedicaal Cardinale Gallio, si focalizzerà l’attenzione sul contenuto del Discorso, sul modo in cui è affrontato l’argomento, considerando soprattutto il “soggetto”, e non tanto il modo con il quale è scritto perché – seppur rilevante, ad esempio, è la scelta della lingua volgare per il trattato ‘scientifico’ di un medico – è lui stesso ad augurarsi che questo suo lavoro non debba esser men grato, scritto in un modo, che in un’altro, "& tanto più perche facendo essa fondamento più del soggetto, & materia, che in essa si tratta, che dello stile, & dell’eleganza, farà giudicio di quella poca d’eruditione, & dottrina, che è in me, la quale ella hà conosciuto anche in altre mie cose". (Dis., p. 7) Si leggerà, quindi, nelle sue parole la consapevolezza, crescente capitolo dopo capitolo, di un uomo e di uno studioso che ha fiducia nelle potenzialità e nelle capacità dell’ingegno umano e si sottolineeranno quei passaggi in cui è possibile individuare, al di là della sintesi sulla lunga tradizione teorica in materia, soprattutto i punti di rottura che proiettano verso la visione secentesca delle problematiche affrontate. In un percorso di lettura guidata al testo – sempre sulla scorta del modello offerto dallo stesso Paravicino – è necessario allora occuparsi, seppur in necessaria sintesi, di “quasi tutti quelli che hanno scritto in tal materia” (Dis., p. 31) per poter collocare l’analisi dell’autore non solo in un preciso momento storico, culturale e sociale, ma anche all’interno di un più ampio e complesso dibattito teorico cui il Paravicino non fa alcun aperto riferimento, bensì, fatta qualche rara e motivata eccezione, liquida intenzionalmente. Questa consapevole presa di distanza dalle contemporanee, o di poco precedenti, discussioni su temi e problematiche connesse al riso, assume un significato ancor più pregnante quando si ripropone nel medesimo atteggiamento, persino rafforzato da un dichiarato e spavaldo senso di superiorità, nei confronti degli Antichi, al punto che in molti luoghi del suo articolare l’essenza, le cause e gli effetti del riso, nonché nel modo del suo procedere analitico, non si può non rimandare il pensiero a quella moderna coscienza del sé che caratterizzerà l’uomo nuovo del Seicento e che porta già il Paravicino a dichiarare, quasi con ‘meravigliosa’ma naturale sfrontatezza: “non è impossibile, che hoggidì una cosa si sappia da uno mediocre litterato, la quale al tempo antico non sia stata intesa, ne anco da i singolari” (Dis., p.13). Infine, ma entrando sempre più nel dettaglio della struttura e delle tematiche affrontate nel testo, si seguirà l’autore nei tanti rivoli in cui conduce il fiume in piena del riso, quella naturale proprietà dell’uomo che già nel 1574, e sempre più superato il primo decennio del secolo successivo, non solo veniva riconosciuta tale, ma non veniva più temuta o repressa (secondo le contraddizioni che hanno caratterizzato il Cinquecento), ma trovava il “modo” di resistere alle pressioni della Riforma cattolica e al rischio di essere gettata via insieme a quelle che erano considerate le forme riprovevoli del comico alle quali ormai la Chiesa aveva ampiamente dichiarato guerra. La singolarità del Discorso del riso – già resa tale dalla posizione sociale, professionale e civile del suo autore – risiede, infatti, anche nella sua capacità di registrare, con piena coscienza della trasformazione, i cambiamenti che stavano intervenendo nel contesto culturale, pubblico e privato, dell’epoca. Il merito del suo autore è sicuramente quello di indagare con rigore scientifico la “vera proprietà dell’huomo”, quella che solo all’uomo è data e, nonostante la propria formazione, carriera e vocazione, di non rinnegare tanta peculiarità in nome del controllo delle passioni, ma legare la passione, propria dell’anima sensitiva, alla ragione, propria dell’anima razionale, coniugando ancora, ma forse per poco, le posizioni della Scienza con quelle della Chiesa, ma già proiettando l’antico verso il moderno ovvero consegnando il riso – nelle cause, negli effetti e soprattutto nei modi di provocarlo – all’ingegno e non tanto per il controllo dell’uno sull’altro, quanto perché il riso possa essere considerato una virtù, e non più un vizio, allorquando imparando “come si deve [...] caminar per mezo di questa virtù” si è “governati dal prudente, & saldo giudicio del l’huomo” (Dis., p. 43)
2010
Settore L-FIL-LET/10 - LETTERATURA ITALIANA
Italian
Rilevanza nazionale
Monografia
Nardi, F. (2010). Comico e modernità nel Discorso del riso di Basilio Paravicino. Lecce : Pensa MultiMedia.
Monografia
Nardi, F
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